Il 19 settembre di un anno fa Benedetto XVI a Birmingham proclamava beato il teologo inglese John Henry Newman
Dottore della coscienza
Oggi è un termine spesso malinteso e così l’avvocata della verità nel nostro cuore, «originario vicario di Cristo», è diventata un pretesto per legittimare ogni arbitrio
Hermann Geissler
Un anno fa, il 19 settembre 2010, Benedetto XVI ha proclamato beato il famoso teologo inglese John Henry Newman.
Durante l’incontro natalizio con la Curia Romana, svoltosi il 20 dicembre 2010, il Papa parlava ancora una volta di Newman, richiamando tra l’altro l’attualità della sua concezione di coscienza: «Nel pensiero moderno, la parola “coscienza” significa che in materia di morale e di religione, la dimensione soggettiva, l’individuo, costituisce l’ultima istanza della decisione. La concezione che Newman ha della coscienza è diametralmente opposta. Per lui “coscienza” significa la capacità di verità dell’uomo: la capacità di riconoscere proprio negli ambiti decisivi della sua esistenza — religione e morale — una verità, “la” verità. La coscienza, la capacità dell’uomo di riconoscere la verità, gli impone con ciò, al tempo stesso, il dovere di incamminarsi verso la verità, di cercarla e di sottomettersi ad essa laddove la incontra.
Coscienza è capacità di verità, e obbedienza nei confronti della verità, che si mostra all’uomo che cerca col cuore aperto. Il cammino delle conversioni di Newman è un cammino della coscienza — un cammino non della soggettività che si afferma, ma, proprio al contrario, dell’obbedienza verso la verità che, a passo a passo, si apriva a lui».
Newman fece l’esperienza che coscienza e verità si appartengono, si sostengono e si illuminano a vicenda, che l’obbedienza alla coscienza conduce all’obbedienza alla verità. Ricorrendo spesso alla propria esperienza, il pensiero di Newman sulla coscienza è moderno e personalistico, caratterizzato da un’evidente impronta agostiniana. Per entrare nella questione, occorre all’inizio descrivere brevemente il significato della coscienza secondo Newman.
Con il tempo il termine coscienza ha assunto molteplici significati, che in parte sono anche contraddittori tra di loro. Newman — si legge in Sermon Notes — descrive il motivo centrale per questi contrasti con le seguenti parole: «Quanto alla coscienza, esistono due modalità per l’uomo nel seguirla. Nella prima la coscienza forma soltanto una specie di intuito verso ciò che è opportuno, una tendenza che ci raccomanda l’una o l’altra cosa. Nella seconda è l’eco della voce di Dio. Ora tutto dipende da questa differenza. La prima via non è quella della fede, la seconda lo è».
Nella celebre Lettera al Duca di Norfolk (1874) Newman approfondisce questa tematica. Scrive al riguardo: «Quando gli uomini si appellano ai diritti della coscienza, non intendono assolutamente i diritti del Creatore, né il dovere che, tanto nel pensiero come nell’azione, la creatura ha verso di Lui. Essi intendono il diritto di pensare, parlare, scrivere e agire secondo il proprio giudizio e il proprio umore senza darsi alcun pensiero di Dio (...) La coscienza ha diritti perché ha doveri; ma al giorno d’oggi, per una buona parte della gente, il diritto e la libertà di coscienza consistono proprio nello sbarazzarsi della coscienza, nell’ignorare il Legislatore e Giudice, nell’essere indipendenti da obblighi che non si vedono. Consiste nella libertà di abbracciare o meno una religione (...) La coscienza è una severa consigliera, ma in questo secolo è stata rimpiazzata da una contraffazione, di cui i diciotto secoli passati non avevano mai sentito parlare o dalla quale, se ne avessero sentito, non si sarebbero mai lasciati ingannare: è il diritto di agire a proprio piacimento».
Questa descrizione vale sostanzialmente anche per il nostro tempo: la coscienza è oggi spesso confusa con l’opinione personale, il sentimento soggettivo, l’arbitrio. Per molti non significa più la responsabilità della creatura nei confronti dell’Altro, ma la totale indipendenza, l’assoluta autonomia, la pura soggettività. Il santuario della coscienza è stato «desacralizzato». La responsabilità nei confronti dell’Altro è stata bandita dalla coscienza. Le conseguenze di quest’interpretazione secolarizzata della coscienza ci stanno dolorosamente davanti agli occhi. Emancipandosi dalla responsabilità nei confronti di Dio, infatti, l’uomo tende a segregarsi anche dal prossimo. Vive nel mondo del proprio Io, spesso senza prendersi cura dell’altro, senza interessarsi dell’altro, senza sentirsi corresponsabile per l’altro. Il puro individualismo, la ricerca illimitata del piacere e del potere e il gradimento senza limiti oscurano il mondo e fanno sempre più difficile la convivenza pacifica tra gli uomini.
Newman invece difende decisamente il significato trascendente della coscienza.
Per lui la coscienza non è una realtà puramente autonoma, ma essenzialmente teocentrica — un «santuario» nel quale l’Altro si rivolge personalmente ad ogni singola anima. Con i grandi dottori della Chiesa egli conferma che il Creatore ha impresso nella creatura ragionevole la sua legge. «Questa legge, in quanto è percepita dalla mente dei singoli uomini, si chiama “coscienza” e benché possa subire rifrazioni diverse passando attraverso l’intelligenza di ogni essere umano, non ne viene per questo intaccata al punto da perdere il suo carattere di legge divina, ma mantiene ancora, come tale, il diritto ad essere obbedita».
Newman stesso descrive il significato e la dignità della coscienza con parole meravigliose: «La norma e la misura del dovere non è l’utilità, né la convenienza, né la felicità del maggior numero di persone, né la ragion di Stato, né l’opportunità, né l’ordine o il pulchrum. La coscienza non è un egoismo lungimirante, né il desiderio di essere coerenti con se stessi, bensì la messaggera di Colui, il quale, sia nel mondo della natura, sia in quello della grazia, ci parla dietro un velo e ci ammaestra e ci governa per mezzo dei suoi rappresentanti. La coscienza è l’originario vicario di Cristo, profetica nelle sue parole, sovrana nella sua perentorietà, sacerdotale nelle sue benedizioni e nei suoi anatemi; e se mai potesse venir meno nella Chiesa l’eterno sacerdozio, nella coscienza rimarrebbe il principio sacerdotale ed essa ne avrebbe il dominio».
Nella coscienza l’uomo non sente solo la voce del proprio Io. Newman paragona la coscienza con un messaggero di Dio che ci parla come dietro un velo. Osa persino chiamare la coscienza l’originario vicario di Cristo e di ascriverle i tre «uffici» messianici del profeta, del re e del sacerdote. La coscienza è profeta in quanto ci predice se un’azione è buona o no; è re perché ci comanda con autorevolezza: fa questo, evita quest’altro; è sacerdote in quanto ci «benedice» dopo aver compiuto un’azione buona — ciò significa non solo l’esperienza gratificante della buona coscienza, ma anche la benedizione che il bene comporta sempre per l’uomo e per il mondo — oppure ci «condanna» dopo un’azione cattiva — ciò è espressione della coscienza cattiva e delle conseguenze negative del peccato sull’uomo e sulla società. Per noi è importante che, secondo Newman, la coscienza è essenzialmente collegata con la responsabilità nei confronti dell’Altro, in quanto costituisce un principio iscritto nella natura di ogni uomo che richiede obbedienza, deve essere formato e rinvia al di sopra di noi stessi — verso Dio, per il bene proprio e altrui.
Nel suo capolavoro Grammatica dell’assenso (1870) cerca di elaborare una «prova» di Dio a partire dall’esperienza della coscienza. Analizzando l’esperienza della coscienza, distingue tra il «senso morale» (moral sense) e il «senso del dovere» (sense of duty). Con il senso morale intende il giudizio della ragione sulla bontà o malvagità di una determinata azione. Il senso del dovere invece è il comando autorevole di compiere l’azione riconosciuta come buona e di evitare quella riconosciuta come cattiva. Nelle sue riflessioni Newman parte soprattutto da questo secondo aspetto dell’esperienza della coscienza.
Essendo «imperativa e cogente, come nessun altro imperativo in tutta la nostra esperienza», la coscienza «esercita un profondo influsso sulle nostre affezioni ed emozioni». In modo semplificato potremmo riassumere il pensiero di Newman, da non confondere con un puro psicologismo, nel modo seguente: qualora seguiamo il comando della coscienza, siamo riempiti di felicità, di gioia e di pace. Se non obbediamo a questa voce interiore, sentiamo vergogna, spavento e paura. Newman interpreta quest’esperienza così: «Se, com’è il caso, ci sentiamo responsabili, ci vergogniamo, siamo spaventati, per aver trasgredito la voce della coscienza, ciò suppone che esiste Qualcuno verso il quale siamo responsabili, davanti al quale proviamo vergogna, le cui pretese temiamo. Se, nel fare il male, proviamo lo stesso dolente e straziato dispiacere che ci sopraffa quando offendiamo nostra madre; se, nel fare il bene, godiamo della stessa solare serenità dello spirito, della stessa gioia lenitiva e soddisfacente che deriva da una lode ricevuta dal padre, certamente abbiamo dentro di noi l’immagine di una persona alla quale guardano il nostro amore e la nostra venerazione, nel cui sorriso troviamo la nostra felicità, per la quale sentiamo tenerezza, alla quale rivolgiamo le nostre invocazioni, dalla cui ira siamo preoccupati e logorati (...) così i fenomeni della coscienza, intesa come imperativo, servono ad imprimere nell’immaginazione l’immagine di un Reggitore Supremo, un Giudice, santo, giusto, potente, onniveggente, punitivo».
Confrontandosi con le tradizionali «prove di Dio», Newman afferma di preferire la via a Dio a partire dalla coscienza. Taluni vedono in questa posizione un limite nel pensiero di Newman, rimproverandogli di aver esagerato la dimensione della interiorità dell’uomo. In realtà Newman non nega le tradizionali «prove di Dio», ma è del parere che queste conducono l’uomo soltanto ad un’immagine astratta di Dio: ad un primo Movente, un Ordinatore di tutte le cose, un Creatore e Guida del mondo. La sua via della coscienza invece conduce l’uomo a un Dio che sta in una relazione personale con ciascuno, che gli parla, gli mostra i suoi difetti, lo chiama alla conversione, lo guida alla conoscenza della verità, lo sprona a fare il bene, si presenta come suo supremo Signore e Giudice. Gli atteggiamenti morali fondamentali, che scaturiscono dall’obbedienza alla coscienza, formano secondo Newman «l’organum investigandi datoci per guadagnare la verità religiosa: questo condurrebbe la mente, con una successione infallibile, dal rifiuto dell’ateismo al teismo e dal teismo al cristianesimo, e dal cristianesimo alla religione evangelica e da questa al cattolicesimo». Nell’Apologia Newman afferma in modo audace: «Arrivai alla conclusione che, in una vera filosofia, non vi era via di mezzo tra l’ateismo e il cattolicesimo, e che uno spirito pienamente coerente, nelle circostanze in cui si trova quaggiù, deve abbracciare o l’uno o l’altro. E sono tuttora convinto di questo: io sono cattolico in virtù della mia fede in Dio; e se mi si chiede perché credo in Dio, rispondo: perché credo in me stesso. Trovo, infatti, impossibile credere nella mia propria esistenza (e di questo fatto sono perfettamente sicuro) senza credere anche nell’esistenza di Colui che vive nella mia coscienza come un Essere Personale, che tutto vede, tutto giudica».
Le affermazioni più rilevanti sul tema coscienza e Chiesa si trovano nella già citata Lettera al Duca di Norfolk. In questo saggio Newman respinge l’accusa che dopo la proclamazione del dogma sull’infallibilità del Papa i cattolici non potrebbero più servire lo Stato come buoni cittadini, in quanto sarebbero obbligati a consegnare la propria coscienza al Papa. Per rispondere a simili idee diffuse allora in Inghilterra, Newman chiarisce in modo magistrale il rapporto tra l’autorità della coscienza e l’autorità del Papa.
L’autorità del Papa è fondata nella rivelazione, espressione della bontà divina nei confronti dell’uomo. Dio ha consegnato la sua rivelazione alla Chiesa e in forza del suo Spirito si fa garante che essa venga preservata, interpretata e trasmessa in modo infallibile nella Chiesa e per mezzo della Chiesa. Se una persona accoglie nella fede questa missione della Chiesa, capisce nella sua propria coscienza che deve obbedire alla Chiesa e al Papa. Newman, di conseguenza, può scrivere: «Se il vicario di Cristo parlasse contro la coscienza, nell’autentico significato del termine, commetterebbe un suicidio; toglierebbe la base su cui poggiano i suoi piedi. Sua autentica missione è proclamare la legge morale; proteggere e rafforzare quella “Luce che illumina ogni uomo che viene in questo mondo”. Sulla legge e sulla santità della coscienza sono fondati tanto la sua autorità in teoria, quanto il suo potere in pratica (...) La sua raison d’être è quella di essere il campione della legge morale e della coscienza. La realtà della sua missione è la risposta al lamento di quanti sentono l’insufficienza del lume naturale; e l’insufficienza di questo lume è la giustificazione della sua missione» (Lettera al Duca di Norfolk). Non obbediamo al Papa perché qualcuno ci costringe a farlo, ma perché siamo personalmente convinti nella fede che il Signore — per mezzo di lui e dei vescovi in comunione con lui — guida la Chiesa preservandola nella verità.
La coscienza formata dalla fede conduce l’uomo all’obbedienza libera e matura nei confronti del Papa. D’altra parte, la Chiesa, il Papa e i vescovi illuminano la coscienza bisognosa di un sostegno chiaro e preciso. Newman afferma: «il sentimento del giusto e dell’ingiusto, che nella religione è il primo elemento, è così delicato; così irregolare; così facile da confondersi, da essere oscurato, pervertito; così sottile nei suoi metodi di ragionamento; così malleabile dall’educazione; così influenzato dall’orgoglio e dalle passioni; così instabile nel suo corso che, nella lotta per l’esistenza, tra i molteplici esercizi e trionfi della mente umana, questo sentimento è al tempo stesso il più grande e il più oscuro dei maestri; e la Chiesa, il Papa, la gerarchia costituiscono, nella Provvidenza divina, la risposta a un urgente bisogno».
Al riguardo, la Chiesa è un grande aiuto non solo per la coscienza del singolo credente. Offre anche un servizio insostituibile per la società come avvocata dei diritti e delle libertà inalienabili degli uomini. Tali diritti e libertà, radicati nella dignità della persona umana, formano la base degli Stati costituzionali moderni, ma come tali non possono essere sottoposti alle regole democratiche maggioritarie. Difendendo la dignità della persona umana, creata da Dio e redenta da Cristo, e ribadendo i suoi fondamentali diritti e doveri, la Chiesa svolge quindi una missione di straordinaria importanza per le società moderne.
Secondo Newman non ci può essere uno scontro diretto tra la coscienza e la dottrina della Chiesa. La coscienza, infatti, non ha competenza nelle questioni della dottrina rivelata, custodita in modo infallibile dalla Chiesa. Newman sa che «nelle cose dottrinali “la maestà della coscienza” non è il tribunale adeguato per ciò che vorrei tenere come affermazione valida sulla materia». Se una persona accoglie una dottrina rivelata e insegnata dalla Chiesa non è prioritariamente una questione di coscienza ma di fede. Un credente quindi che ritiene di dover respingere una dottrina di fede, non può richiamarsi alla sua coscienza. O meglio, la sua coscienza non è più illuminata dalla fede. La coscienza del fedele deve sempre essere una coscienza ecclesiale formata dalla fede.
Ma l’autorità della Chiesa e del Papa ha dei limiti. Non ha niente in comune con l’arbitrio oppure con i modelli di dominio di questo mondo, essendo connessa inseparabilmente con il senso di fede infallibile di tutto il popolo di Dio e con la missione specifica dei teologi. L’autorità della Chiesa riguarda solo l’ambito della verità rivelata e necessaria per la salvezza. Se il Papa prende decisioni nel campo della disciplina o dell’amministrazione, non si tratta ovviamente di interventi infallibili.
Ma anche qui Newman offre dei criteri chiari e precisi per il credente: «Prima facie è suo stretto dovere, anche per un senso di lealtà, credere che il Papa abbia ragione e agire perciò in conformità. Deve quindi vincere quella meschina, ingenerosa, egoistica e volgare propensione della propria natura, la quale, non appena sente parlare di comando, si pone in contrasto col superiore che l’ha impartito; si chiede se quest’ultimo non sia andato oltre i propri diritti, compiacendosi di affrontare il tutto con scetticismo nei giudizi e nell’azione. Non deve nutrire nessun caparbio proposito di esercitare il diritto di pensare, dire e fare quello che gli pare e piace, senza preoccuparsi minimamente del vero e del falso, del giusto e dell’ingiusto, dell’obbligo stesso dell’obbedienza, qualora possibile, e di quell’amore che ci spinge a parlare come parla il proprio superiore e a stargli sempre a fianco in ogni caso. Se questa fondamentale regola fosse osservata, i conflitti tra l’autorità del Pontefice e l’autorità della coscienza sarebbero estremamente rari. D’altra parte essendo, nei casi straordinari, la coscienza di ciascuno libero di agire a proprio talento, abbiamo la garanzia e la sicurezza (...) che nessun Papa potrà mai creare per i suoi scopi personali (...) una falsa coscienza» (Lettera al Duca di Norfolk).
Newman conclude le sue affermazioni sulla coscienza nella Lettera al Duca di Norfolk con il seguente famoso brindisi: «Se fossi obbligato a introdurre la religione nei brindisi dopo un pranzo (il che in verità non mi sembra proprio la cosa migliore), brinderò, se volete, al Papa; tuttavia prima alla Coscienza, poi al Papa». Questa battuta, che esprime anche il fine humour di Newman, significa innanzitutto che la nostra obbedienza al Papa non è un’obbedienza cieca, ma sostenuta dalla coscienza formata dalla razionalità della fede. Chi nella fede ha accolto la missione del Papa, lo ascolterà per convinzione personale di coscienza. In tal senso viene davvero prima la coscienza, quella illuminata dalla fede, e poi il Papa.
Newman mantenne decisamente la correlazione tra coscienza e Chiesa. Non si può richiamarsi a lui o al suo summenzionato brindisi per contrapporre l’autorità della coscienza e quella del Papa. Ambedue le autorità, quella soggettiva e quella oggettiva, rimangono dipendenti l’una dall’altra. Oggi la parola coscienza è un termine equivoco e spesso malinteso. Con il suo cammino di vita e la sua solida dottrina il beato John Henry Newman può aiutarci a riscoprire il vero significato della coscienza come eco della voce di Dio, rigettando nel contempo interpretazioni insufficienti ed errate. Newman ha sempre affermato pienamente la dignità della coscienza soggettiva, senza deviare mai dalla verità oggettiva. Egli non direbbe: coscienza sì — Dio o fede o Chiesa no, ma piuttosto: coscienza sì — e proprio per questo Dio e fede e Chiesa sì! La coscienza è l’avvocata della verità nel nostro cuore, è «l’originario vicario di Cristo».
(©L'Osservatore Romano 18 settembre 2011)
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