Pregare bene significa andare a tempo
di EDWARD HIGGINBOTTOM
In alcune tradizioni protestanti, i fedeli si alzano in piedi durante le letture e si siedono per l'esecuzione dei cantici. Questo porta a un ripensamento del rapporto tra Parola e musica, una questione che bolle in pentola da tempo.
All'inizio del XVI secolo il pensiero umanistico e quello scientifico stavano erodendo i concetti di metafora e di similitudine, nel tentativo di estrarre un "significato" verificabile, un "fatto", dal linguaggio. A metà del Quattrocento, Guillaume Dufay poteva scrivere un mottetto in cui quattro testi diversi venivano presentati simultaneamente. Palestrina, alla fine del Cinquecento, dovette dimostrare - con grande efficacia nella Missa Papae Marcelli - che fosse possibile percepire chiaramente un unico testo all'interno di un tessuto polifonico.
La progressiva enfasi sul testo musicato era un elemento nuovo, non vi è dubbio. Fu alimentata dalla riproposta di idee platoniche sul ruolo della musica, su come la musica susciti certi stati d'animo, e fu nutrita dal desiderio umanistico di razionalizzare l'arte. A che serve la musica? La risposta fu semplice: è un mezzo per rinforzare il senso di un testo.
Nel campo del culto, il ruolo della musica divenne quello di rinforzare il significato della Parola. La musica diventò l'ancella del testo. Ne consegue che oggi la musica nel culto è considerata più o meno come un ornamento, un'aggiunta alla liturgia. La liturgia è concepita come una struttura formale costituita da parole. Articolate i testi all'interno di questa struttura e avrete il culto. Poi aggiungete musica a piacere. Ripetutamente, chi scrive sulla musica nel contesto della liturgia parla del "ruolo" della musica come se fosse un'entità a sé, uno strumento retorico. Queste idee sono oggi moneta corrente. Ma forse si tratta di una moneta sopravvalutata, forse persino contraffatta.
L'idea che i testi liturgici abbiano un carattere istruttivo e che la musica renda più efficace l'istruzione, ci conduce in una strada senza uscita.
Secondo Thomas Browne Dio è l'Artista che dà origine al mondo naturale con un atto di immaginazione e di perizia, di dedicazione e di amore: dal nulla Egli crea le meraviglie innumerevoli e la potenza del mondo. Non è necessario essere un creazionista per provare la sensazione dell'erompere di questa ricchezza sovrabbondante da un atto di volontà. Browne ci porta a capire che siamo più vicini a Dio quando la nostra creatività è al suo massimo grado: creatività nell'arte, creatività nei rapporti umani, creatività nell'amore. Possiamo quindi affermare che in essenza, se non sempre, l'arte ha un carattere divino. Non è dunque obbligatorio che la musica sia un veicolo per qualcosa d'altro, una passata di vernice sulla parete della liturgia. Nel vero atto di adorazione abbiamo un tessuto continuo, senza cuciture, di musica e di testo, ove la musica non è un ornamento, ma è essa stessa l'adorazione. E proprio lì sta la questione, le matrici sono inseparabili: la musica è la Parola, e la Parola è la musica. Celebriamo la creazione; allora celebreremo il Creatore.
Meglio sarebbe dunque considerare musica e testo come un atto indivisibile di devozione, atto che è veicolo di storia, tradizioni, forme e modi di espressione. Solo allora potremo avere un atteggiamento disteso nei confronti della nostra tradizione culturale.
Se il fare musica è al centro della nostra attenzione ha importanza la differenza tra brani ben scritti e partiture scadenti, tra musiche di grande ispirazione e lavori di qualità insignificante, ha importanza se il coro è intonato o se è stonato. L'aforisma di Stravinsky: "la sincerità è la condicio sine qua non che non garantisce nulla" dovrebbe ricordarci che quel che conta è la competenza creativa, mai scevra dall'umiltà, che vigila in attesa del trascendente.
Pertanto, quando "ci prostriamo di fronte al Signore", stiamo attenti a scegliere il tempo musicale giusto.
(©L'Osservatore Romano 10 settembre 2011)
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