Il continente che attende Benedetto XVI
Africa nuova
Giuseppe Caramazza
Benedetto XVI torna in Africa, un continente spesso visitato dal suo predecessore. Giovanni Paolo II fu sempre accolto con entusiasmo dagli africani, e fu testimone di molti drammi che hanno avvolto il continente in passato. Come dimenticare il dolore che traspariva dal volto del Pontefice quando, durante una celebrazione in Angola, vennero letti i nomi dei tanti martiri che avevano dato la loro vita negli anni più bui della guerra civile?
Benedetto XVI è già stato in Angola e Camerun nel marzo del 2009. Oggi visita il Benin per consegnare alla Chiesa in Africa l’esortazione apostolica post-sinodale della seconda assemblea speciale per l’Africa del Sinodo dei vescovi. Il continente che lo accoglierà è per molti versi cambiato anche rispetto ad anni recenti.
La trasformazione più decisiva degli ultimi anni è senz’altro quella politica. Non mancano i regimi dittatoriali e le democrazie di facciata, eppure è innegabile che politici africani abbiano capito l’importanza di prestare attenzione ai diritti delle persone e alle esigenze di trasparenza di governo. L’Unione africana ha attivato dei meccanismi che misurano l’azione di ogni singolo Paese e, utilizzando la capacità di dialogo di alcuni politici carismatici, ha fatto pressione in più di un’occasione per promuovere un cambiamento in senso democratico. Non è tutto oro quello che luccica, ma almeno anche quei presidenti che non vogliono lasciare spazio a nuove forze si sono visti costretti a fare importanti concessioni alla società civile. Si tratta di una politica dei piccoli passi che sta dando i suoi frutti.
Sia sufficiente un esempio. Oggi, anche se tra grandi difficoltà, il Kenya sta cambiando la legislazione per potere essere più efficiente nel punire gli abusi di potere, e alcuni politici di spicco sono stati chiamati a rispondere di gravi accuse davanti al Tribunale internazionale dell’Aja. Non si possono poi dimenticare i fatti che hanno investito il nord Africa, e l’influenza che questi hanno avuto nei Paesi dell’Africa subsahariana.
Il cambiamento politico è figlio delle trasformazioni economiche. Mentre l’occidente è alla prese con una crisi profonda, l’Africa vanta una crescita del benessere senza precedenti. Sudafrica, Nigeria, Etiopia, Kenya emergono sempre più come economie stabili e forti. Ma non si possono dimenticare il Botswana, il Mozambico, l’Angola e il Ghana. In generale, l’Africa cresce e un numero sempre maggiore di famiglie esce dalla povertà assoluta per ingrossare le fila della classe media. Il divario tra ricchi e poveri resta alto, ma non si può negare che oggi molte persone dispongano di beni e denaro sufficienti a coprire spese e necessità oltre i bisogni fondamentali. Si stanno inoltre creando meccanismi nuovi. Da una parte si intravvede lo sviluppo di una civiltà dei consumi. Dall’altra, la qualità della vita sta crescendo e con questa aumenta anche la speranza di ulteriore miglioramento.
I cambiamenti politici ed economici hanno influito sulla società. Va da sé che in Africa coesistono modelli molto diversi tra loro. Con centinaia di gruppi etnici, lingue e tradizioni, non potrebbe essere altrimenti. Allo stesso tempo, il fenomeno della globalizzazione e la diffusione della comunicazione digitale spingono le società del continente ad alcuni punti di convergenza. Come detto sopra, la classe media è in espansione, specialmente nelle città. È qui che nascono nuove dinamiche. I giovani, che formano la stragrande maggioranza degli abitanti, si identificano più con la loro nazionalità che con la loro etnicità. Si tratta di un fenomeno nuovo. Dagli anni delle indipendenze a oggi, le tensioni etniche sono infatti spesso sfociate in violenza: dalle proteste soffocate con la forza, fino ai genocidi perpetrati in Rwanda, Burundi, Repubblica Democratica del Congo, Zimbabwe. Molti politici hanno soffiato sul fuoco dell’appartenenza etnica per il proprio tornaconto. Che i giovani oggi rifiutino questo tipo di divisioni è allora un fatto positivo. È anche comune incontrare giovani nati lontani dai luoghi ancestrali della loro famiglia, incapaci di parlare la lingua dei loro genitori, e che di fatto preferiscono immedesimarsi in ruoli e culture diverse da quelle dei loro padri. Vedremo ancora tensioni e violenze di sapore etnico, ma è certo che le società africane si stanno muovendo in una direzione diversa.
Dopo l’indipendenza, sotto la guida carismatica di presidenti quali Senghor e Nkhrumah, i Paesi africani crearono l’Organizazione dell’unità africana (Oua). Questa organizzazione doveva promuovere i Paesi del continente facendo fronte comune nei rapporti internazionali e sostenere il processo di decolonizzazione. Nel 2002, l’Oua è stata dismessa a favore di un nuovo gruppo, l’Unione africana (Ua). Da allora, l’Ua ha mostrato un certo dinamismo, è riuscita a intervenire anche militarmente in alcune situazioni di crisi, ma ha pure mostrato limiti notevoli. Il fallimento dei negoziati portati avanti in Zimbabwe, Costa d’Avorio e Libia, ne sono una testimonianza chiara.
Se a livello continentale l’integrazione risulta difficile, diversa è la situazione a livello regionale. L’Africa orientale sta formando un vero e proprio mercato comune, con infrastrutture e interventi legislativi per favorire l’integrazione. Non a caso il piano di sviluppo adottato dal Kenya dà spazio alla creazione di nuove strutture — porti e ferrovie — che sostengano i Paesi della regione senza sbocco al mare (Etiopia, Uganda, Rwanda e Burundi). La comunità dei Paesi dell’Africa meridionale continua nel suo lavorio di integrazione regionale. Il Sudafrica fa la parte del leone, esportando beni e stili di vita, ma non si può nascondere la crescita di Paesi quali il Mozambico e l’Angola che stanno facendo capolino anche sui mercati internazionali.
L’Africa di oggi è anche un continente che non dipende più dalle vecchie potenze coloniali. India, Cina, e Brasile — e in forma per ora minore la Turchia — sono i nuovi partner finanziari e politici. Si tratta di potenze economiche in via di sviluppo, capaci di investire capitali e bisognose di materie prime. L’Africa è per esse un punto di riferimento importante e, nel caso dell’India, i nuovi rapporti servono a rinsaldare antichi legami storici. Non allora un caso che l’Unione europea stia da tempo tentando in tutti i modi di firmare patti commerciali con i singoli Paesi. Da una parte si vuole rompere l’unità dei gruppi regionali, per limitarne la forza contrattuale, e dall’altra si vuole evitare che importanti risorse prendano vie diverse.
In questa situazione, il Papa offrirà alla giovane Chiesa nel continente la riflessione che i vescovi hanno condiviso durante la seconda assemblea per l’Africa. Da quel Sinodo sono state lanciate importanti sfide al laicato e alla gerarchia per un più profondo lavoro di evangelizzazione delle loro società. I vescovi riuniti a Roma avevano sottolineato l’importanza dell’impegno dei laici nei rispettivi ambiti di lavoro e vita, avevano riconosciuto la necessità di sostenere la crescita del rispetto dei diritti umani, avevano puntualizzato la specificità della Chiesa in Africa come Chiesa aperta al dialogo e all’accoglienza. Quando Giovanni Paolo II nel 1995 portò in tre Paesi — Camerun, Sudafrica e Kenya — l’esortazione apostolica postsinodale Ecclesia in Africa, frutto dell’assemblea speciale celebrata l’anno prima, i fedeli lo accolsero a mani aperte. A Nairobi egli disse di volere restituire il Sinodo agli africani.
Anche oggi la Chiesa saprà fare suo il messaggio del Sinodo e camminare verso una nuova evangelizzazione. Un’evangelizzazione che sappia dare un nuovo volto al continente.
(©L'Osservatore Romano 17 novembre 2011)
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