martedì 22 novembre 2011

Anno della fede, intervista con il card. Walter Kasper (Valente, 30Giorni)

Un dono, non un possesso

La fede ha il carattere di un dono che sopravviene, non si può dedurre, non si può “produrre”.
Non si tratta di una nostra conquista.


Intervista con il cardinale Walter Kasper

di Gianni Valente

Un «anno della fede», un «tempo di particolare riflessione» convocato sull’esempio di quanto fece Paolo VI nel 1967, con l’intento di favorire «una sempre più piena conversione a Dio, per rafforzare la nostra fede in Lui e per annunciarLo con gioia all’uomo del nostro tempo».
La proposta di Benedetto XVI a tutta la Chiesa, anticipata nell’omelia di domenica 16 ottobre e illustrata nella lettera apostolica Porta fidei, si trova ancora nella fase germinale dell’annuncio e si concretizzerà solo tra undici mesi, a partire da quell’ottobre 2012 in cui cadono il cinquantenario dell’inizio del Concilio ecumenico Vaticano II e il ventennale della pubblicazione del Catechismo della Chiesa cattolica. Eppure, fin dai preliminari – lo ha osservato padre Federico Lombardi, direttore di Radio Vaticana e della Sala Stampa vaticana –, quella annunciata da papa Ratzinger può essere considerata una delle iniziative caratterizzanti di questo pontificato.

Già nei primi accenni e nella Lettera apostolica di indizione, sono disseminati tanti sommessi, confortanti inviti a mettere da parte «ecclesiocentrismi» autoreferenziali, e a chiedere tutto a Gesù Cristo, «colui che dà origine alla fede e la porta a compimento».

«Che altro di più importante dovrebbe dirci il pastore del popolo di Dio in cammino?», ha commentato padre Lombardi. 30Giorni ha rigirato la questione al cardinale Walter Kasper, presidente emerito del Pontificio Consiglio per la Promozione dell’unità dei cristiani.

Benedetto XVI ha indetto un anno della fede. Lo aveva già fatto Paolo VI nel 1967. A quel tempo, sia lei che Joseph Ratzinger eravate due giovani teologi nel fiore degli anni. Come ricorda quella scelta di papa Montini?

WALTER KASPER: Erano gli anni subito dopo il Concilio. Passato il grande entusiasmo, nella Chiesa sembrava di vivere una specie di collasso. Sembrava che la fede stesse venendo meno, proprio mentre negli ambienti ecclesiastici si stava discutendo delle riforme necessarie nella Chiesa per riproporre l’annuncio cristiano nella realtà di questo tempo. Ratzinger in quel tempo scrisse Introduzione al cristianesimo. Io ho scritto Introduzione alla fede. In quel contesto, Paolo VI ebbe l’intuizione di indire l’anno della fede, che si concluse con la proclamazione del Credo del popolo di Dio. Voleva indicare a tutti che il cuore di tutto è la fede. Anche le riforme sono utili e necessarie quando favoriscono la vita di fede e la salvezza di tutti i fedeli. Negli ultimi giorni ho riletto Bernardo di Chiaravalle: anche la sua grande riforma era solo una ripartenza nella fede. Come scriveva Yves Congar, «le riforme riuscite nella Chiesa sono quelle fatte in funzione dei bisogni concreti delle anime».

Perché indire un anno della fede proprio adesso?

C’è una crisi. Lo si vede soprattutto in Europa. È evidente in Germania. Ma se parlo coi vescovi italiani, mi raccontano le stesse cose. Soprattutto tra i giovani, molti non hanno alcun contatto reale con la vita della Chiesa e coi sacramenti. Se si parla di nuova evangelizzazione, non si può che prendere atto di questo. Altrimenti si finisce per far cose accademiche.

Eppure, Benedetto XVI inizia la Lettera di indizione di questo anno speciale dicendo che «la porta della fede è sempre aperta per noi». Cosa indica questo incipit?

È Dio che tiene aperta la porta della fede, per noi e per tutti. Non siamo noi che possiamo o dobbiamo agitarci per aprirla. Per questo l’inizio della fede è sempre possibile. Non si tratta di una nostra conquista. La fede ha il carattere di un dono che sopravviene, non si può dedurre, non si può “produrre”. Anche per questo è stato importante l’invito rivolto dal Papa agli agnostici nella recente giornata di Assisi. Nella secolarizzazione, Dio ha le sue vie per toccare i cuori di ogni uomo. Di quelli che cercano e anche di quelli che non cercano. E sono vie che noi non conosciamo.

Ad Assisi Benedetto XVI ha parlato proprio degli agnostici in termini non certo di contrapposizione.

Il Papa ha detto che gli agnostici aiutano i credenti «a non considerare Dio loro proprietà». Dio non è un possesso di chi crede. Della fede non si può dire: io la possiedo, altri no… Anche i credenti che hanno ricevuto il dono della fede sono in pellegrinaggio. E non si può mai pretendere di anticipare tale dono come comprensione posseduta di un sapere concettuale. A volte, nella Chiesa, proprio davanti all’incredulità e all’agnosticismo ci si arrocca e si dà l’impressione di considerare la fede come un possesso. Come se il problema fosse fare dispute e battaglie con chi non crede… Quasi si perde di vista che Cristo è morto per tutti.

Nelle prime righe di Porta fidei si sottolinea che spesso anche nella Chiesa prevale la preoccupazione per le conseguenze sociali, culturali e politiche dell’impegno dei cristiani, «continuando a pensare alla fede come un presupposto ovvio del vivere comune». Nota anche lei questa scontatezza?

Innanzitutto la fede è un rapporto personale con Dio, che s’esprime nella preghiera e nella fiducia di essere tenuti in braccio da Dio in ogni situazione, o come Gesù dice: amare Dio con tutto il cuore. I teologi parlano di una virtù teologale. Però in questo primo comandamento l’amore di Dio è immediatamente connesso con l’amore del prossimo come sé stessi. Così la fede ha conseguenze sociali, culturali e politiche senza le quali non sarebbe sincera. D’altra parte queste conseguenze debbono essere animate e motivate dall’amore di Dio, altrimenti diventano una forma di ideologia umanistica, che rimane senza fondamento fermo. Penso alla predicazione nelle chiese, la domenica. Nessun’altra realtà umana ha questa opportunità, di raggiungere così tante persone che vengono spontaneamente ad ascoltare. Ma a volte le omelie sembrano solo istruzioni su cosa i cristiani devono fare e non fare a livello morale, culturale, politico, manca spesso il lieto messaggio che Dio sempre ci precede con la sua grazia.

C’è chi dice: adesso bisogna puntare più sulla fede e meno sulle opere sociali. È questa la “soluzione”?

Non si possono contrapporre fede e carità. Sarebbe un intellettualismo o una specie di misticismo male interpretato. San Paolo ha detto che la fede diventa operosa nella carità. E si è sempre espressa nelle opere di misericordia corporale e spirituale: aiutare i poveri, i carcerati, gli oppressi, i malati… Questa è semplicemente la vita cristiana. Personalmente, le testimonianze più avvincenti della fede le ho viste proprio nei viaggi che facevo quando ero responsabile della Chiesa in Germania per gli aiuti alle Chiese dei Paesi in via di sviluppo. Noi andavamo lì portando qualche risorsa materiale per aiutare la sopravvivenza di quelle persone e, nella miseria dei villaggi e delle favelas, ci imbattevamo nell’allegria e nella fiducia delle loro vite predilette e consolate dal Signore. Lo stesso mi è accaduto guardando la fede di tanti fratelli incontrati nel dialogo ecumenico. Tramite rapporti fraterni si dà testimonianza della fede cattolica.

Adesso che l’Anno della fede è stato indetto, cosa c’è da fare?

Benedetto XVI ha chiesto solo di riflettere sulCredo in ogni diocesi. Non basta recitarlo, bisogna conoscerlo e comprenderlo nella sua profondità. Perché il Credo esprime gli articoli fondamentali della fede, che sono comuni a tutti i cristiani e che corrispondono alle promesse battesimali. Intanto sono costitutivi per la esistenza cristiana. Ma mi sembra importante il fatto che la semplice confessione di fede non esprima una pretesa di possesso concettuale della verità. Il Credo lo cantiamo spesso durante la messa domenicale. Un sistema dogmatico-concettuale non si può cantare. Invece noi cantiamo il Credo, e lo cantiamo come preghiera. È una dossologia, una lode e un riconoscimento che rende grazie.

Qualcuno dice che bisogna fare di più per rendere credibile la visione antropologica cristiana.

Sì, senz’altro è importante anche questo. La fede non è solo un atto intellettuale, ma un modo di essere e di vivere nelle mani di Dio e sotto la sua provvidenza. Questo implica anche la bene intesa libertà cristiana. La confessione di fede è preghiera perché domanda a Dio di rivelare il suo mistero. Come diceva san Tommaso, actus fidei non terminatur ad enuntiabile, sed ad rem. L’atto di fede non termina alla ripetizione verbale di formule vere. Essa rimane aperta a riconoscere la realtà vivente che quelle parole indicano. E per Tommaso la «res» è Dio stesso. È lui che agisce, non siamo noi a doverlo “dimostrare”. Inoltre, il Credo è anche il condensato della fede delle altre generazioni. Nella fede non si è soli davanti a Dio. Si è in una comunione che abbraccia tutti i secoli. In tempi come i nostri, si percepisce ancora di più quanto sia importante trovare conforto e godere nella compagnia dei santi e dei Padri della Chiesa, e di tutti i grandi testimoni che ci hanno preceduto.

«I credenti si fortificano credendo», scrive il Papa, citando sant’Agostino. Come si cresce e si va avanti, nel cammino della fede?

Nella fede si è portati, sia all’inizio che lungo il cammino della vita. Nelle esperienze della vita si scoprono sempre di più le ricchezze della fede. Non siamo noi a conservare la fede, come una proprietà acquisita. Noi veniamo custoditi nella fede. Ha scritto san Tommaso: «La grazia crea la fede non solo quando la fede nasce in una persona, ma per tutto il tempo che la fede dura». Abbiamo usato questa definizione nel quadro dell’accordo coi luterani, quando abbiamo riconosciuto l’identità fondamentale esistente tra la teologia di Lutero sulla giustificazione per fede e aspetti essenziali della dottrina del Concilio di Trento definita nel decreto De iustificatione. Questo vuol dire che il dono della fede non è una specie di spinta, una carica che qualcuno ci dà all’inizio, e poi andiamo avanti da soli. E non è nemmeno come i sistemi di illuminazione sulle piste degli aeroporti: luci cementate nell’asfalto per illuminare tutto il percorso. Essa piuttosto assomiglia a una lanterna che portiamo in mano, e si muove con noi illuminando il breve tratto di strada che abbiamo davanti. La sua luce è necessaria e sufficiente per compiere il prossimo passo.

Se la fede è all’inizio e in ogni passo un dono e un riconoscimento dell’opera gratuita del Signore, cosa è la Chiesa?

La Chiesa è – come dice una antica definizione – la comunione dei fedeli. Tertulliano ha detto: Unus christianus, nullus christianus. Un solo cristiano nessun cristiano. Da cristiani non siamo mai soli ma sempre in una comunità di fedeli di tutti i tempi e di tutti i luoghi. Nondimeno la Chiesa non è termine di fede. La Chiesa è sacramento, cioè segno e strumento. Nel Credo noi confessiamo di credere in Dio Padre, in Gesù Cristo, nello Spirito Santo, ma non confessiamo di avere fede nella Chiesa. Si crede in Dio, ed è lui che ci rivela la Chiesa come Corpo di Cristo e come Suo popolo. La Chiesa è come la luna che non ha luce propria ma riflette solo la luce del sole, che è Cristo. Se non rimanda a Cristo, non manifesta alcuna bellezza propria. La bellezza che in essa si trova – ad esempio, nelle liturgie – è solo un riflesso della gloria di Dio.

Eppure, a volte sembra che la Chiesa voglia occupare la scena pensando in tal modo di rendere testimonianza al Signore.

Forse è utile ricordare che i Padri della Chiesa non avevano sentito l’esigenza di elaborare alcuna ecclesiologia sistematica. Loro non avevano il problema di soffermarsi sulla Chiesa, era sufficiente qualche cenno. Il cuore dei loro interessi e delle loro premure non era certo l’istituzione ecclesiastica. L’ecclesiologia inizia solo alla fine del Medioevo, in reazione al conciliarismo e poi a Lutero. E come disse Yves Congar, inizia come «gerarcologia», per esporre le ragioni teologico-dottrinali della funzione e della supremazia delle gerarchie nella compagine ecclesiale. Da qui è partita anche la tentazione e l’insidia di un certo “ecclesiocentrismo”. Il Concilio Vaticano II, con il suo ressourcement nei Padri della Chiesa, ha ripreso anche l’immagine usata da molti di loro sulla Chiesa come semplice riflesso della luce e dell’opera di Cristo, che si ritrova anche nel titolo della Costituzione sulla Chiesa del Concilio Vaticano II: Lumen gentium.

A proposito di gerarcologia, anche adesso, almeno sui media, si parla molto di vescovi e cardinali.

Certo, i vescovi e i cardinali hanno il loro ruolo nella vita della Chiesa. Ma Benedetto XVI continua a ripetere che la questione centrale non è quella della Chiesa, ma quella di Dio. Se viene meno la fede in Dio, la Chiesa la si può anche mettere da parte e dimenticare.

http://www.30giorni.it/articoli_id_77911_l1.htm

2 commenti:

Anonimo ha detto...

bravo l'intervistato e bravo l'intervistatore

Anonimo ha detto...

rimanere a Roma e lontano da Lehman gli ha molto giovato,complimenti!