Credenti e non credenti a confronto dopo lo storico incontro di Assisi dello scorso 27 ottobre
Se il dialogo è bloccato da saperi di terza mano
Alcuni esponenti laici del mondo della cultura -- in contatto con il Pontificio Consiglio della Cultura, presieduto dal cardinale Gianfranco Ravasi, per l'iniziativa del «Cortile dei gentili» -- erano presenti ad Assisi lo scorso 27 ottobre, quando Benedetto XVI ha incontrato i leader religiosi di tutto il mondo. Le parole pronunciate dal Papa in quell'occasione hanno lasciato il segno.
di Remo Bodei
Parto dalla constatazione, spesso dimenticata, che siamo tutti ospiti della vita. Il nostro cuore batte, il sangue circola, lo stomaco digerisce, i polmoni si gonfiano e si svuotano d'aria, le ghiandole secernono gli ormoni, milioni di globuli bianchi s'immolano ogni volta che abbiamo un minimo graffio e tutto questo senza l'intervento della nostra volontà; così come la nostra volontà non interviene nemmeno nel sogno oppure nel fantasticare.
Il fatto che dipendiamo da potenze inconsce o più grandi di noi, che operano senza il nostro consenso e segnano il nostro destino, non significa che noi siamo in loro completo possesso o che dobbiamo consegnarci a esse. Al contrario. tutta la storia umana testimonia un processo di emancipazione da esse. La modernità, soprattutto, è segnata dal protagonismo della coscienza umana, della sua progettualità, che intende cambiare il mondo, controllare il corso degli eventi, sottraendolo al destino naturale.
La Chiesa cattolica, al pari di altre religioni, ha avuto e ha difficoltà a conciliarsi con il mondo moderno (i cui contenuti non è detto che siano tutti buoni). Ma c'è da discutere proprio su questi automatismi, estranei alla nostra volontà e alla nostra coscienza, su cui le Chiese fondano oggi la loro convinzione che la vita non ci appartiene, arrivando fino a sostenere che il corpo sia una sorta di livrea che il servo riconsegna a conclusione del periodo di lavoro trascorso con il padrone. Sul testamento biologico, ad esempio, la posizione dei laici è diversa, e con laico intendo colui che distingue fra Stato e Chiesa e tra morale e diritto, non colui che rifiuta la religione. Si può essere laici e religiosi allo stesso tempo, se si mantengono queste distinzioni. Un laico, dunque, pur concordando sul fatto che quasi tutti gli automatismi della dimensione biologica e una parte della nostra dimensione psichica ci sfuggono, non accetta facilmente l'idea che la sua vita non gli appartenga.
Ciascun individuo cerca di costruire la sua personalità, la sua identità. Con il nascere ognuno di noi inizia una nuova storia, al cui centro inevitabilmente si pone. Per diventare contemporaneo di se stesso, per situarsi nella realtà, per orientarsi, egli deve ripercorrere a tappe forzate tratti del cammino attraversato dalla sua civiltà.
In questo tormentato processo di crescita accatastiamo tuttavia senza inventario una enorme quantità di idee, pregiudizi, convinzioni, fedi e ignoranza (poche sono le cose che sappiamo con una sufficiente certezza, molte quelle che crediamo di sapere e che sono di ennesima mano). Da piccoli poniamo tante domande, tanti perché sino a quando gli adulti o noi stessi si stancano e ci stanchiamo. Da allora si instaura una specie di pilota automatico, una navigazione a vista che, in maniera approssimativa e non esaminata, orienta ciascuno nell'esistenza, nella sua navigatio vitae lungo rotte non tracciate.
Siamo sempre in viaggio, emigranti nel tempo, esposti a peripezie e pericoli. Andiamo quindi tutti in cerca del senso e della verità, specialmente oggi in cui il disorientamento e il senso di precarietà e di pericolo crescono in Occidente dopo una fase di relativo benessere e stabilità economica e politica.
Forse più che nel passato (o in maniera diversa da esso) abbiamo oggi bisogno di verità e, per giungervi, di un percorso comune e rispettoso tra uomini di buona volontà e di buon intelletto, disposti a cercarla senza pregiudizi, superando presunzione, rassegnazione e cinismo.
Benedetto XVI ha giustamente posto l'accento sul fatto che il cristianesimo ha ereditato e inglobato la filosofia classica e che, pertanto, non rifiuta di confrontarsi sulla base di argomenti razionali. Il nostro incontro tra ideali e prospettive diverse è tanto più importante perché attualmente la politica e i mezzi di comunicazione di massa tendono spesso a provocare la schematizzazione delle idee e l'infantilizzazione dei ragionamenti. Anche dopo la fine dei totalitarismi del Novecento, il tratto fondamentale della menzogna continua a esser rappresentato non dal nascondimento della verità, ma dalla sua strutturale sostituzione. Il film di Peter Weir The Truman Show è una metafora adeguata ed esagerata (talvolta però l'esagerazione è un'utile lente d'ingrandimento) della tendenziale indistinzione che si viene a produrre tra fiction e realtà.
Occorre chiedersi se in molti non prevalga la degradazione della verità a semplice opinione, e se essa non si accompagni all'inaridimento della facoltà di giudicare e alla mancanza di prospettive atte a innalzare gli individui al di sopra della banalità della vita quotidiana o di miopi interessi. Se così è, per combattere il torpore mentale e morale, per ritrovare se stessi in una dimensione dell'esistenza che non si alimenti solo di fuggevoli soddisfazioni, non abbiamo forse bisogno di un nuovo diritto fondamentale dopo l'habeas corpus, ossia quello dell'habeas mentem?
È, dunque, necessario riscoprire valori meno venali, non più strettamente legati a un consumo di beni che cerca di riempire una vita svalutata e povera di senso, ad ambizioni di carriera o alla spasmodica rincorsa di piaceri effimeri. Ci si deve riabituare a riflettere sull'essenziale, su quanto di solenne, di gioioso, ma perfino di terribile l'esistenza presenta.
Certo, ci sono cose che non si possono dimostrare e che rendono in parte sterile l'antica e sempre ripresa querelle del rapporto tra fede e ragione. Si racconta che, nel Seicento, portarono il matematico francese Roberval a vedere una tragedia di Racine. Lui uscì scuotendo la testa e dicendo: «Non ho capito cosa voleva dimostrare». Ebbene, nemmeno l'amore o la speranza si possono dimostrare e nemmeno la verità che è in noi è facile da attingere, perché siamo in gran parte ignoti a noi stessi. La speranza di rincontrare noi stessi fonda la possibilità di accogliere quella parte di noi che ci è sempre rimasta estranea, che ci accompagna come un ombra e tuttavia costituisce un'immensa riserva di senso e di vita di cui dobbiamo, almeno in parte, riappropriarci.
È, peraltro, difficile sapere e definire la verità. Tutti ne abbiamo un'oscura intuizione e usiamo spesso questo termine. Esiste una specie d'istinto di verità che -- come già diceva Dante -- ci guida «come fera in lustra», come un animale alla sua tana. Certo non sempre è evidente, anche se la si può riconoscere quando si incontra. Il Veritatis splendor, secondo il titolo di un'enciclica di Giovanni Paolo II, non riluce allo stesso modo per tutti. Se la verità, identificata con il messaggio cristiano, risplendesse come il sole, chi non la vede sarebbe teoricamente e moralmente cieco o daltonico. Anche il sole, del resto, non si può guardare a lungo senza perdere la vista. Conviene, dunque, adattarsi gradualmente alla luce delle verità, senza pretendere di guardarla in faccia per molto. La verità ama nascondersi e richiede impegno per essere trovata. Specie per il laico, che non gode del vantaggio, di possedere una verità rivelata. Per il cristiano la verità non è una cosa, ma una persona (Cristo), per cui, quando Pilato gli domanda «Cos'è la verità?», Gesù non risponde. Sarebbe stato -- dice Kierkegaard -- come chiedere a un orologio che ore sono. Ma su quale meridiano uno si trova?
La paura dei laici è che aprirsi alla speranza o alla fede significhi concedersi all'illusione o all'inganno, giungere per paura al sacrificium intellectus. Quella dei cristiani è, spesso, che si intacchino e si erodano le granitiche, dogmatiche certezze della fede. Entrambi dobbiamo tuttavia sforzarci di essere aperti, ma non per semplice cortesia e condiscendenza.
Nel confrontarsi occorre una specie di disarmo bilaterale, una disponibilità a capire le ragioni e i sentimenti altrui. Come nell'amore, nella speranza o nella fede, anche nel dialogo si deve accettare il rischio, esporsi alla vulnerabilità delle proprie posizioni, ma anche, eventualmente, a una gioia o un'esperienza più alta. Forse questo è anche il senso della Lettera ai Filippesi (2, 6), di san Paolo In cui Dio si svuota della sua potenza (kènosis) e si presenta non come un Signore onnipotente, ma come un essere debole, che si dona per amore. E, forse, anche in questo senso si potrebbero interpretare le parole di Agostino nelle Confessioni, quando dice che Dio interior intimo meo (III, 6, 11), più dentro di me di quanto io lo sia a me stesso. Per questo, essendo ciascuno di noi «troppo angusto per comprendere se stesso» (ivi, x, 8, 15), la discesa in interiore homine, dove abita la verità, comporta anche un ulteriore sprofondarsi in un inconcepibile fuori di noi stessi, in una rischiosa discesa verso quella zona, in grandissima parte a noi sconosciuta, che è la verità stessa.
Certo, sarebbe bene che il disarmo valesse tanto per coloro che si richiamano alla dimensione religiosa, quanto per gli altri, uniti dalla comune ricerca di pensieri e sentimenti che ci sottraggano alla superficialità e all'indifferenza. Il rispetto per la religione (e la sfera del sacro in genere) deve nascere dal considerarla anche un tesoro accumulato da millenni, di speranze e di timori. Dio è il più grandioso progetto di donazione di senso al mondo e a ciascuno di noi, una costruzione culturale che alimenta l'arte, la filosofia e l'esistenza di ciascuno, anche di chi «non crede» (o, meglio, che crede in altre cose). Il rispetto per il laico deve però nascere dal riconoscimento che esistono anche altre vie per la ricerca della verità.
La Chiesa, come tutti, ha bisogno di una ricerca in comune, di mettersi in discussione per cercare la verità, specie in tempi così incerti, segnati da disastri ecologici, guerre, terrorismo, fame, crescita della popolazione. La Chiesa ha molto da insegnare, ma anche diverse cosa da imparare per uscire da alcune tendenze all'autoreferenzialità. Condivido, in questo senso, le parole di Benedetto XVI in Caritas in veritate, allorché afferma che «un Cristianesimo di carità senza verità può venire facilmente scambiato per una riserva di buoni sentimenti, utili per la convivenza sociale, ma marginali». Lo stesso si può dire, in maniera quasi complementare per i laici: che una pretesa di verità senza attenzione per le ragioni altrui è un atto di superbia.
Non intendo, infatti, dare dei consigli alla Chiesa, fare come l'ambasciatrice americana Clara Boothe Luce che negli anni Cinquanta, ricevuta da Pio XII gli spiegò a lungo cosa la Chiesa avrebbe dovuto fare. Al che il Pontefice, dopo aver ascoltato con pazienza, disse: «Sa, sono cattolico anch'io».
(©L'Osservatore Romano 14-15 novembre 2011)
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