Il dibattito su metodo scientifico e fede religiosa da «L’interpretazione dei sogni» a Benedetto XVI
Freud e l’ebraismo un rapporto da psicanalizzare
Anticipiamo integralmente uno dei saggi pubblicati sul numero in uscita di «Vita e Pensiero».
Lucetta Scaraffia
Il rapporto fra scienza e religione ha una lunga storia e una complessità che spesso non viene riconosciuta dai molti che insistono nel separarle, per quello che ritengono il bene della ricerca scientifica. «La religione è una cattiva scienza», scrive Richard Dawkins, riproponendo una ostilità che caratterizza da secoli gli atei scientisti. Proprio per questo scienziati, filosofi e scrittori hanno molto riflettuto al proposito nel corso del Novecento, con risultati diversi ma sempre stimolanti. In particolare, negli ultimi anni ci sono stati dei significativi ritorni sul tema, centrati intorno alla figura emblematica di Sigmund Freud.
Nel 1899 esce uno dei libri che avranno più importanza nella trasformazione della cultura contemporanea, L’interpretazione dei sogni di Freud, e da questa data si fa iniziare la psicanalisi. Ma non è stato tutto semplice e immediato: la storia del testo è complessa (come rivelano le otto edizioni fra il 1899 e il 1930) e attesta un interscambio ininterrotto tra l’autore e i lettori (colleghi, pazienti, critici, seguaci) che ne trasforma decisamente il carattere iniziale, attutendone in parte la potenzialità rivoluzionaria. La prima edizione dell’opera, infatti, si presentava come un evento irripetibile: l’autoanalisi di Freud, che analizzava i propri sogni per spiegare il suo nuovo metodo di cura, proponendo così il coinvolgimento diretto del medico curante come fattore fondamentale per garantire la riuscita della terapia. Lyda Marinelli e Andreas Mayer (Sognare a libro aperto. L’interpretazione dei sogni di Freud e la storia del movimento psicoanalitico, 2010) ricostruiscono la galassia di rapporti che si crearono intorno a Freud dopo l’uscita del libro: molti intervennero per suggerire modifiche o aggiunte nelle edizioni successive, fino a divenire coautori, come Otto Rank e Sandor Ferenczi. Discussioni che con Adler, Stekel e Jung si trasformarono in furiose polemiche.
In una prima fase (1899-1909) il libro venne utilizzato soprattutto come un manuale di metodologia psicanalitica, e i lettori spesso descrissero a Freud i propri sogni per avviare analisi epistolari. Fu subito evidente, però, che non bastava la sola lettura del libro a garantire una buona autoanalisi, ma era indispensabile un contatto personale con l’autore. Ciò non impedì comunque il diffondersi di una cultura interpretativa estranea alla medicina, fatta di psicologia spicciola e chiacchiere da salotto, che portò anche a interpretazioni scherzose.
La seconda fase (1909-1918) coincise con la nascita dell’Associazione psicoanalitica internazionale, quando (con un lavoro collettivo che si rivelò laboratorio di gravi conflittualità) Freud cercò di rafforzare la tesi del libro integrandolo con un repertorio di simboli. Al materiale analitico del medico e dei pazienti si aggiunse quindi materiale «impersonale» che avrebbe dovuto spostare la discussione su un nuovo terreno, quello del mito, della storia, della letteratura. Fra il 1909 e il 1914 l’interpretazione dei sogni divenne la sede del confronto critico fra il maestro e i suoi allievi, portando a laceranti rotture, ma anche alla definizione di concetti base della psicanalisi: come il complesso di Edipo e la rimozione, che sottobanco incoraggiò la tendenza a vedere ogni forma di critica alla psicoanalisi come una resistenza.
Infine, nella terza fase (1919-1930) il libro assunse il ruolo di documento storico, di cui Freud cercò di riprendere il controllo: nel 1925 ripropose, infatti, una ristampa della prima edizione, cioè solo il testo scritto da lui e relativo alla sua autoanalisi.
Rimase aperta la questione delle radici religiose del metodo psicanalitico, problema che nasceva dall’analisi del sistema di simboli di riferimento a cui attingevano i sogni esaminati. Su questo si aprì il conflitto con Jung e la scuola di Zurigo, che tendeva ad attribuire importanza all’appartenenza religiosa del sognatore, inducendo così a una presa di posizione morale e religiosa dell’interprete del sogno. Il confronto serrato fra il gruppo di Zurigo e quello di Vienna prese quindi la forma non solo di due stili analitici diversi, ma di confronto fra cultura ebraica e cultura cristiana.
Freud, che pure era circondato da seguaci ebrei e aveva pazienti quasi solo ebrei, preferiva negare ogni parentela fra cultura ebraica e psicanalisi, preoccupato di fare di questa nuova disciplina una scienza universale valida per tutti. «Volete farmi passare per un volgare kabbalista?» risponde al collega Sandor Ferenczi, che vorrebbe fargli interpretare un sogno dal carattere marcatamente ebraico, nel libro di Tom Keve Triad (tradotto in italiano nel 2005).
Il tema del profondo legame intellettuale tra Freud e la sua cultura originaria è uno dei fili portanti di questo romanzo filosofico complesso e fascinoso. Il libro inizia con il viaggio che Freud, Jung e Ferenzci fanno nel 1909 negli Stati Uniti e pone subito il problema del rapporto del maestro con il discepolo cristiano, il delfino designato Jung, e con il correligionario Ferenzci. Davanti a Freud, che rifiuta ogni contaminazione della psicanalisi con la tradizione religiosa, sia Ferenczi, da parte ebraica, sia Jung, da quella cristiana, si rendono conto che questa rimozione è impossibile: «I sogni e la loro interpretazione sono la più antica forma di comunione con Dio. E questa comunione con Dio a immagine di quale uomo è fatta? È guardare nella profondità di se stessi. Introspezione. Investigazione dell’anima umana, niente altro. L’importanza dei numeri, della gematria, i giochi di parole, la Temurah, la libera associazione, tutto è là». Così pensa Ferenczi, convinto che Jung abbia ragione, cioè che la psicanalisi affondi le sue radici nella mistica ebraica, a cui — sostiene — abbiamo aggiunto i protocolli razionali di osservazione e analisi, gli studi clinici e le misure, facendone una scienza.
Che la cultura ebraica fosse un insegnamento a viaggiare nel profondo lo spiegava già il rabbino di Presburgo, Chatam Sofer, protagonista di una sorta di flashback nel passato della tradizione chassidica: i mezzi per viaggiare nel profondo sono il digiuno, la meditazione e il sogno, cioè i mezzi della kabbalah. Ne era convinto Ferenczi che, a differenza di Freud, accoglieva le sue radici ebraiche come materiale fertile e così anche — secondo Keve sulla base di ricerche storiche e fonti coeve come lettere e articoli — i grandi fisici e matematici di origine ebraica, che in quegli stessi anni cambiarono il modo di osservare e spiegare l’universo.
Soprattutto il Nobel Niels Bohr, per il quale la fisica era una guida che conduceva alle porte dell’universo: «Tutta la questione è sapere ciò che noi possiamo dire della natura, e non ciò che la natura è realmente, cosa che sarebbe un’ambizione illusoria». Anche perché, secondo lo scienziato, «l’osservatore è co-creatore del fenomeno», posizione che si avvicina molto a quella del terapeuta nella psicanalisi freudiana ed è in netto contrasto con la teoria di Einstein, basata sull’ipotesi che esista un universo oggettivo, indipendente dall’esistenza umana e al di là di essa. A differenza di Freud e di Rutheford — il fisico inglese che, nella scuola di Manchester, aveva accolto come allievi i più promettenti scienziati del tempo — condivisero con Bohr questa teoria quasi mistica di metodo scientifico il fisico Wolfang Pauli, originario dell’antica famiglia ebraica di librai praghesi Pascheles (il cambio di nome e la conversione del padre erano stati un tentativo radicale di assimilazione), il chimico Gyuri Hevesy, aristocratico ungherese di origine ebraica, e il matematico John Neumann, figlio di un banchiere ebreo ungherese e da ragazzo paziente di Ferenczi.
Questo gruppo di scienziati, tutti insigniti del Nobel, pensavano fosse impossibile per l’uomo conoscere se stesso, così come era impossibile conoscere il mondo esterno, nella misura in cui il primo faceva parte di quest’ultimo. Nelle loro ricerche risulta evidente, secondo Keve, l’ispirazione di origine ebraica, nella cui tradizione per capire i pensieri di Dio si studiava l’interiorità dell’essere umano, creato a sua immagine e somiglianza, e con lo stesso atteggiamento la natura, perché «la natura e Dio sono la stessa cosa» afferma Hevesy nel romanzo. Tutte le nuove discipline scientifiche (fisica teorica, logica matematica, psicanalisi) a cui si dedicano intensamente questi intellettuali ebrei — discendenti diretti dagli allievi di Chatam Sofer a Presburgo, finalmente liberi di aprirsi al mondo esterno grazie all’emancipazione — in realtà somigliano dunque da vicino agli antichi studi rabbinici, di cui l’interpretazione dei sogni faceva parte.
In ambito cattolico, anche Joseph Ratzinger fece tesoro della teoria della complementarità di Bohr — come fece del resto anche Yves Congar — nell’ambito del discorso teologico nel suo celebre Introduzione al cristianesimo.
Il paziente e affascinante lavoro di Keve su due generazioni di scienziati europei — che riporta con chiarezza alla luce questa comune radice nella tradizione religiosa — aiuta a guardare con occhio diverso la storia della cultura europea del Novecento e soprattutto mette in crisi il dogma più rigido del pensiero contemporaneo, cioè la separazione fra scienza e religione. Il conflitto che scoppiò su L’interpretazione dei sogni di Freud aveva subito reso evidente che si trattava di una questione scottante. Che è ancora aperta ai nostri giorni, non solo affrontata da scienziati e filosofi, ma sempre presente anche nella riflessione dei Papi moderni, in particolare di due Papi che facevano parte della Pontificia Accademia delle Scienze — Pio XII e Benedetto XVI — e di Giovanni Paolo II.
Se sono numerosi i filosofi che hanno affrontato il rapporto fra fede e scienza, e così pure i teologi, particolarmente nuovo e interessante è stato nel secolo scorso l’apporto di due grandi scienziati mistici, Teilhard de Chardin e Pavel A. Florenskij, il cui pensiero creativo e intensamente spirituale si può accostare a quello degli scienziati di matrice culturale ebraica di cui narra Keve. Entrambi ben consapevoli che la conoscenza scientifica — che amavano appassionatamente e a cui avevano dedicato la vita — «non è l’unica conoscenza degna di questo nome (come ingannevolmente sostenuto dal scientismo), ci sono altri tipi di sapere, modi di conoscere che hanno una grande rilevanza per il vivere umano, ai quali riconoscere dignità epistemologica e veritativa» come scrive Umberto Casale nella lunga introduzione a Fede e scienza. Un dialogo necessario (2010), antologia degli scritti su fede e scienza di Benedetto XVI. Del resto oggi la teoria scientista per cui soltanto la conoscenza scientifica/naturale si baserebbe su fatti accertati e condurrebbe a risposte soddisfacenti, mentre le altre — e naturalmente fra queste soprattutto la conoscenza religiosa — si fonderebbero su opinioni e non condurrebbero al «vero», è molto criticata anche in ambito laico. La scienza, infatti, ci dice una parte della verità sul mondo fisico, ma non tutta la verità.
Giovanni Paolo II, nella lettera scritta nel 1988 al direttore della Specola Vaticana George Coyne, scrive che «la teologia (...) deve attuare ogni scambio vitale con la scienza proprio come c’era sempre stato con la filosofia e le altre forme del sapere», ribadendo, dall’altra parte, l’importanza della scienza per il pensiero teologico. È questo un tema di riflessione più volte ripreso dal cardinale Ratzinger e poi da Papa Benedetto XVI, in particolare nel discorso tenuto nel 2008 ai Bernardins di Parigi: «La scienza naturale, che ha foggiato il nuovo mondo, poggia su un fondamento filosofico, che in ultima analisi va cercato in Platone. Copernico, Galileo e anche Newton erano platonici. Fondamentalmente si basavano sul presupposto della strutturazione matematica, spirituale del mondo e, di conseguenza, a partire da tale presupposto, sulla possibilità di decifrarne l’enigma e, nell’esperimento, di renderlo comprensibile e insieme utilizzabile.
L’esperimento si basa su un’idea interpretativa previa a esso, che poi nel tentativo pratico viene saggiata, corretta e ulteriormente approfondita. Solo questa base matematica permette poi generalizzazioni e la scoperta di leggi che rendono possibile operare in modo adeguato. Tutto il pensiero scientifico e ogni applicazione tecnica sono basati sul presupposto che il mondo sia ordinato secondo leggi spirituali, che abbia con sé spirito, che può essere imitato dal nostro spirito. Ma al medesimo tempo la sua percezione è collegata al controllo mediante l’esperienza. Ogni pensare che pretendesse di scavalcare questo collegamento contraddirebbe la disciplina del mondo scientifico, e perciò sarebbe messa al bando come prescientifico o non scientifico». Ratzinger presuppone quindi che la caratteristica fondamentale della conoscenza scientifica sia la sinergia fra matematica ed esperienza, in cui la matematica è creazione della nostra intelligenza: «Questo implica che l’universo stesso sia strutturato in modo razionale, così che esiste una corrispondenza profonda tra la nostra ragione umana che scopre la natura e la ragione o la razionalità che l’essere umano trova nella natura». Conclusioni che avrebbero probabilmente condiviso Nils Bohr, Wolfang Pauli e John Neumann.
(©L'Osservatore Romano 4 novembre 2011)
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento