Il Papa alla Messa per i cardinali e i vescovi defunti: l’abisso dell’amore di Dio è più grande dell’abisso della morte
La Croce di Gesù ha redento l’uomo e la natura, rivelando come i confini dell’amore di Dio per le sue creature siano più grandi dell’abisso della morte. È il pensiero di fondo che ha guidato questa mattina Benedetto XVI nell’omelia della Messa presieduta nella Basilica di San Pietro in memoria dei cardinali e dei vescovi morti durante l’anno. Ieri pomeriggio, il Papa era sceso nelle Grotte Vaticane per pregare, come ogni 2 novembre, sulle tombe dei suoi predecessori defunti. La cronaca della liturgia di questa mattina nel servizio di Alessandro De Carolis:
Morire avendo creduto e servito un mito illusorio, morire avendo creduto e servito l’Uomo Dio: ecco la differenza per cui quella di un cristiano è “una fede piena di speranza”. Benedetto XVI lo ha affermato riferendosi alla consapevolezza che ha accompagnato, fino all’ultimo istante, la vita i dieci cardinali e i molti vescovi scomparsi nell’arco del 2011. L’omelia della Messa presieduta in San Pietro ha permesso a Benedetto XVI di proseguire idealmente la riflessione spirituale condensata negli ultimi giorni tra l’Angelus del primo novembre e l’udienza generale di ieri.
Ricordando i nomi dei dieci porporati scomparsi – Urbano Navarrete, Michele Giordano, Varkey Vithayathil, Giovanni Saldarini, Agustín García-Gasco Vicente, Georg Maximilian Sterzinsky, Kazimierz Świątek, Virgilio Noè, Aloysius Matthew Ambrozic, Andrzej Maria Deskur – il Papa ha utilizzato le parole del profeta Osea, proposte dalla liturgia, per riflettere sui tre giorni nei quali si concentrano duemila anni di fede della Chiesa. Quel “vertiginoso mistero” di Gesù, che passa dalla vita alla vita passando per il Calvario e il sepolcro:
“Anche noi, di fronte alla morte, non possiamo non provare i sentimenti e i pensieri dettati dalla nostra condizione umana. E sempre ci sorprende e ci supera un Dio che si fa così vicino a noi da non fermarsi nemmeno davanti all’abisso della morte, che anzi lo attraversa, rimanendo per due giorni nel sepolcro”.
Poi arriva il terzo giorno e il “battesimo della passione” di Cristo diventa, per ogni uomo che crede in Lui, l’inizio della vita che non muore:
“L’abisso della morte viene riempito da un altro abisso, ancora più grande, che è quello dell’amore di Dio, così che la morte non ha più alcun potere su Gesù Cristo, né su coloro che, per la fede e il Battesimo, sono associati a Lui: ‘Se siamo morti con Cristo – dice san Paolo – crediamo che anche vivremo con lui’”.
Tuttavia, ha ripetuto Benedetto XVI, questa speranza della vita dopo la morte diventa certezza “solo in Cristo”. È Lui che dà sostanza, “fondamento reale”, a ciò che prima “rischiava di ridursi – ha detto – ad un’illusione, ad un simbolo ricavato dal ritmo delle stagioni”, da una pioggia d’autunno come da una di primavera. Al tempo del profeta Osea, ha chiarito il Pontefice, “la fede degli Israeliti minacciava di contaminarsi con le religioni naturalistiche della terra di Canaan, ma questa fede non è in grado di salvare nessuno dalla morte”. Invece, ha soggiunto, “l’intervento di Dio nel dramma della storia umana non obbedisce a nessun ciclo naturale, obbedisce solamente alla sua grazia e alla sua fedeltà”. E il segno più che concreto di questa “vita nuova” è sì in un albero, ma l’albero della Croce:
“Senza la Croce di Cristo, tutta l’energia della natura rimane impotente di fronte alla forza negativa del peccato. Era necessaria una forza benefica più grande di quella che manda avanti i cicli della natura, un Bene più grande di quello della stessa creazione: un Amore che procede dal “cuore” stesso di Dio e che, mentre rivela il senso ultimo del creato, lo rinnova e lo orienta alla sua meta originaria e ultima”.
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