Storia dell’incomprensione tra media e Chiesa cattolica
Attualità dell’inattuale
In Vaticano un convegno organizzato da «L’Osservatore Romano»
Giulia Galeotti
Afferrare il toro per le corna e guardarlo dritto negli occhi: così «L’Osservatore Romano» ha scelto di festeggiare i suoi centocinquant’anni. Attraverso la giornata di studio dedicata alle incomprensioni tra la Chiesa cattolica e i media nel mondo, si è voluto indagare uno dei nodi più spinosi oggi sul tappeto.
Ben lungi dall’essere un tema di stridente attualità però, questo fraintendimento vanta ormai diversi lustri. Se la sua data di nascita è il 25 luglio 1968, la successiva giovinezza copre tutti gli anni Settanta, giungendo fino alla maturità inaugurata con l’elezione del 19 aprile 2005. Si tratta, del resto, di una storia alquanto particolare. L’incipit, infatti, era stato decisamente promettente: i moderni legami tra i media e la Chiesa nascono con il Vaticano II, amatissimo dalla stampa (la figura del vaticanista nasce di fatto in questa fase), concilio storico anche nella misura in cui giunse al mondo non solo attraverso la voce della stessa Chiesa, ma anche grazie al ruolo svolto dai media.
Giacché dunque di storia si tratta, a due storici contemporaneisti — Lucetta Scaraffia e Andrea Riccardi — è stato affidato il compito di aprire i lavori del convegno «Incomprensioni. Chiesa cattolica e media», tenutosi giovedì 10 novembre nell’Aula vecchia del Sinodo in Vaticano.
Alla presenza del cardinale Tarcisio Bertone, segretario di Stato, dei cardinali Julián Herranz, Stanisław Ryłko e Gianfranco Ravasi (che, in serata, tiene le conclusioni del convegno), di arcivescovi — tra cui monsignor Dominique Mamberti, segretario per i Rapporti con gli Stati — e vescovi, dell’assessore per gli Affari Generali, monsignor Peter Bryan Wells, di ambasciatori, storici, politici, giornalisti e personalità varie, la giornata è stata avviata dall’introduzione del nostro direttore. Interrogandosi sulle incomprensioni nei media «per un’istituzione esperta in comunicazione» come la Chiesa, Giovanni Maria Vian ha notato come il problema storico s’intrecci «innanzi tutto con i nodi ambivalenti della secolarizzazione e della modernità, non facili da capire e da sciogliere in una tradizione di lunghissimo periodo come quella cristiana e nella quale la continuità presenta due facce, come una medaglia: forza vitale e lentezza».
Il direttore ha quindi dato la parola — se così si può dire — a Paolo VI e Giovanni Paolo II, Papi estremamente diversi tra loro ma accomunati dall’assenza di indifferenza che suscitarono nell’opinione pubblica. Entrambi, infatti, vissero ora momenti di grande consenso, ora fasi di profonda impopolarità. Solo che per i due, temporalmente, la scansione «mediatica» fu opposta: se, infatti, Papa Montini nacque amato e morì in disgrazia presso i media, Wojtyła invece esordì da impopolare e scomparve da eroe mediatico incontrastato.
Lucetta Scaraffia è partita dall’Humanae vitae, l’enciclica che (tra le altre cose) segna la rottura dell’entusiasmo mediatico per Paolo VI. Pur mancando delle doti comunicative del predecessore, infatti, Montini appare alla stampa, sin dalla sua elezione, uomo aperto al nuovo, capace sia di riformare la curia per riavvicinare la Chiesa alla povertà delle origini, sia di favorire i rapporti con le altre religioni e la pace nel mondo. Ma nel luglio 1968 tutto muta radicalmente. «Si parla di crisi della Chiesa — ha detto Scaraffia — abbondano le metafore di tempesta, viene rimessa in gioco l’immagine del Pontefice e del pontificato. È una crisi senza precedenti dell’autorità del Papa, a cui sono collegate perfino voci di dimissioni».
La tempesta coinvolge la Chiesa sia all’interno, sia nel rapporto con la società. Tra le prime reazioni, le parole più frequenti sono stupore, costernazione e delusione. A «Le Monde» («concorde o costernato, lo stupore domina in Vaticano»), fa eco «Die Zeit»: «pillola amara». E intanto una delle vignette della «Frankfurter Allgemeine Zeitung» collega la condanna di Galileo a quella della pillola: due errori gravidi di conseguenze causati dal rifiuto per il progresso scientifico. Una pubblicazione inglese scrive addirittura che l’Humanae vitae è il Vietnam di Paolo VI. «Roma sembra avere perduto, in un solo momento, ciò che aveva messo secoli a costruire»: questo il lapidario commento di Yves Congar.
Eppure — ha proseguito Lucetta Scaraffia — un quarantennio più tardi «ci si può legittimamente domandare se Paolo VI non abbia invece salvato la dottrina della Chiesa, rimasta una possibile ancora di salvezza a cui attingere valori e cultura nel momento del fallimento della rivoluzione sessuale, l’unico tabù indiscusso della cultura occidentale, talmente forte che non si vogliono neppure capire le ragioni contrarie. Forse solo oggi, che quella rivoluzione sta rivelando in pieno il suo fallimento, siamo finalmente disposti a capire meglio anche le ragioni dell’Humanae vitae, che quel fallimento aveva previsto». L’enciclica, del resto, con il ricorso alla legge naturale, ha anche costituito un modello decisivo per i rapporti tra progresso scientifico e morale cattolica cui ricorrere per affrontare i problemi bioetici che sono sorti successivamente.
«Oggi, insomma, lo sguardo di tutti i commentatori del tempo risulta fatalmente troppo ravvicinato, mentre quello di Paolo VI appare profetico». E allo storico Étienne Fouilloux che, vent’anni dopo, si domandava «si può ridurre la crisi nata dall’enciclica a un malinteso?», Scaraffia risponde «malinteso c’è stato, fu la volontà di non capire e di ridurre tutte le questioni, molto più ampie, alla situazione storica contingente».
Il clima di sfavore mediatico prosegue nei mesi successivi alla morte di Montini, e anche dopo il 16 ottobre 1978. Sembra impossibile, ma — come ha esordito Andrea Riccardi — «Giovanni Paolo II è stato anche un Papa impopolare». Dapprincipio, infatti, è il meccanismo che si ripete quasi ogni volta. Nel gioco delle contrapposizioni, il precedente Pontefice viene rivalutato rispetto al neo eletto: «A Paolo VI Papa della complessità e della mediazione, si contrappone il granitico Pontefice polacco arroccato su modelli clericali e preconciliari». Basti il titolo di un pezzo di Eugenio Scalfari: «Non Giovanni Paolo II, ma Pio XIII». Era il 1979.
Già colpevole per le posizioni in tema di aborto, la posizione di Giovanni Paolo II si aggrava con il binomio condom-Aids (Riccardi ha ricordato un documentario della Bbc che lo accusava sommariamente di essere il responsabile della diffusione della pandemia). Il vaticanista del «País», Juan Arias, lo definirà un personaggio paradossale «con un approccio passionale alla realtà che genera passionalità», spiegando la sua ostilità per la teologia della liberazione con il timore di una «sovversione dei poveri».
La svolta, il 13 maggio 1981. L’attentato provoca sorpresa e sgomento nell’opinione pubblica: la simpatia verso quel Papa, fino a quel momento «apparso giovane, sportivo e forte», è immediata. Da quel famoso mercoledì, esplode il processo di riconsiderazione della sua figura (percorso, però, non sempre rettilineo) culminato con la caduta del Muro di Berlino: «La figura di Giovanni Paolo II è aureolata, fatto inedito tra i Papi contemporanei, del segno del vincitore». Sembra quasi, però, che la stampa abbia voluto creare il suo eroe, senza davvero ascoltarlo. Riccardi è netto: «La definizione di Papa-attore va rivista, quando si esamina attentamente il suo pontificato e si nota come non ci siano cedimento o accomodamenti». Egli, infatti, «ha vissuto l’inattualità della Chiesa come opposizione alla banalità ed espressione di un messaggio che viene da lontano. Ha sentito come gli aspetti inattuali del suo messaggio fossero una profezia; si è preteso più moderno dei suoi oppositori, anche quando era considerato antimoderno. Dobbiamo ricordare tutto questo difficile percorso, per comprendere meglio come la simpatia che lo ha accompagnato negli ultimi anni non sia un fatto causale legato al suo carattere, bensì il frutto di una lotta e una costruzione faticosa e complessa».
Se incomprensioni hanno dunque segnato da dopo il concilio i rapporti tra la Chiesa e i media, ciò è stato perché la stampa ha cercato in questi due grandi Pontefici non il loro messaggio, ma ciò che la logica e la moda del tempo contingente le imponevano di trovare. Ascoltare il Vangelo e scorgere segni di contraddizione difficili da comprendere e digerire: gli ingredienti per un percorso accidentato certo non sono mancati.
Ora, dagli storici, la parola passa ai vaticanisti, e (sempre se così si può dire) a Benedetto XVI. Fu proprio lui, del resto, quando era ancora cardinale, a dire che «l’inattualità della Chiesa è da un lato la sua debolezza ma può essere la sua forza». Perché per i media, ossessionati dall’attualità, nulla è più misterioso e minaccioso dell’inattuale.
(©L'Osservatore Romano 11 novembre 2011)
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
1 commento:
non solo si è parlato solo di gp2 sprecando l'ennesima occasione di rendere giustizia a b-xvi ma si lascia il papa in mano ai vaticanisti mentre i suoi predecessori hanno goduto della protezione degli storici che hanno parlato stamattina.
sembra proprio l'ennesima beffa.
Posta un commento