Dibattito
La nostra epoca presenta analogie non indifferenti con il crollo dell’impero romano: dopo le parole di papa Ratzinger due storici a confronto
Parlando alla Curia Romana, Benedetto XVI ha accostato la crisi della nostra epoca alla fine dell’impero romano, quando «un mondo stava tramontando e non si vedeva alcuna forza che potesse porre freno a tale declino». Allora come oggi, ha detto il Papa, «si disfaceva» un consenso morale intorno al quale erano state costruite istituzioni millenarie e ci si rese conto che senza di esso «le strutture giuridiche e politiche non funzionano».
Su questo tema facciamo reagire due storici, Franco Cardini e Andrea Giardina.
© Copyright Avvenire, 22 dicembre 2010
Ma chi sono i nuovi Attila?
Cardini: la crisi dell’Occidente ha il suo apogeo a fine ’800
DI ROBERTO I. ZANINI
«Quello fatto dal Papa è un accostamento immediato. Efficace per il semplice fatto di essere accessibile a tutti, identificando la perdita di spinta culturale ed etica con le ragioni della caduta di una civiltà. Ma se dovessi cercare nella storia un momento capace di spiegare la situazione attuale mi fermerei a tempi più recenti, anche se più delicati per le dirette ricadute nell’odierna lettura della società ».
Per lo storico Franco Cardini non ci sono dubbi, la crisi del liberismo individualista ottocentesco fornisce elementi di considerazione efficacissimi per leggere gli eventi attuali. È su quella crisi che poggiano le basi della prima guerra mondiale e delle catastrofi che hanno caratterizzato il XX secolo.
Le vicende relative alla caduta dell’impero romano sono troppo lontane da noi?
«Diciamo che solitamente abbiamo una visione olografica di quegli eventi, che sono invece assai più complessi. La data del 476 può essere letta anche come una ridefinizione dei confini dell’impero. La parte occidentale non regge alle spinte demografiche, economiche e sociali, manifestatesi da tempo. La parte orientale, invece, resta florida e sopravvive per altri mille anni... Se poi ci si vuole riferire alla corruzione etica e dei costumi come ragione del venir meno di una società, credo che sarebbe molto interessante, ripeto, andare a indagare sul delicatissimo passaggio fra ’800 e ’900».
È l’epoca in cui si assaggiano i frutti avvelenati del liberismo economico sul quale si è costruita la rivoluzione industriale.
«Ecco, quel modello deleterio di capitalismo è molto simile a quello promosso dall’Occidente a partire dagli anni ’80 del secolo scorso. Il mito deteriore della libertà dei mercati, ma anche di una concezione filosofica individualista ed edonista. Elementi sui quali erano costruiti gli stati e le classi dominanti di fine ’800, che non furono capaci di interpretare i problemi generati dalla società di massa. E tanto meno di dare loro una risposta».
Le conseguenze furono tragiche.
«Certamente la Grande Guerra ne fu una diretta conseguenza. Così come i grandi totalitarismi sorsero per dare una risposta alle conseguenze sociali dell’iperliberalismo. Le masse disilluse, dopo le mirabolanti promesse della grande esposizione di Parigi, tanto per intenderci, li interpretarono come un rimedio. Da questo punto di vista il comunismo sovietico, il fascismo e il nazismo possono essere letti come aspetti dello stesso movimento».
Le analogie col momento attuale quali sono?
«Che quel modello economico-filosofico di fine ’800, condannato dalla storia, ce lo hanno riproposto a fine ’900: la legge del mercato sacro e inviolabile, l’apologia dell’individualismo, dell’arrivismo a ogni costo».
E anche la corruzione dei costumi.
«Certo. Se io dovessi fare un esempio di società corrotta che ha fallito penserei alla Belle Èpoque, ai fasti illusori delle esposizioni universali, al Gran ballo excelsior... Un mondo in cui l’uomo si era posto al centro del mondo e la morale si era ridotta a inutile formalismo. Un degrado che assomiglia da vicino al nostro. In cui la Chiesa era sottoposta a durissimi attacchi culturali, a limitazioni della libertà di fede, con campagne sistematiche condotte dalla nuova borghesia sfruttatrice. Altro che rivisitazioni romantiche del risorgimento. E oggi non abbiamo ancora visto tutte le conseguenze perverse del neoliberismo, del conformismo di massa prodotto da una certa cultura anticristiana e da tutti i suoi politically correct».
© Copyright Avvenire, 22 dicembre 2010
Giardina: ieri come allora la débacle delle classi dirigenti
Roberto I. Zanini
Se c’è un’analogia fra la fine dell’impero romano e la crisi della società attuale, «questa la si deve cercare a livello di ceti dirigenti, di classi dominanti».
Insomma, secondo Andrea Giardina, docente di Storia romana, le affermazioni del Papa presentano aspetti di stretta attualità se si opera una sovrapposizione fra le classi dirigenti di allora e quelle di adesso.
Intende dire che i governanti romani assomigliano ai nostri?
«Non mi soffermerei soltanto sui governanti. Guarderei piuttosto alla generalità dei ceti dominanti. I ricchi di quel tempo, i potenti, tanto per intenderci, furono ciechi di fronte all’interesse collettivo. Per difendere le loro utilità hanno indebolito lo Stato e impoverito le masse, rendendo la struttura incapace di dare risposte concrete alle nuove esigenze».
Una sorta di inconsapevole autodistruzione?
«Non ci sono elementi per dire che fossero inconsapevoli. C’era consapevolezza dei problemi. È che spesso le società muoiono pur sapendo di morire. Pur essendo lucide nel vedere il declino, parlo sempre del livello dirigente, non è detto che abbiano le energie morali per mettere in atto quelle rinunce, quelle modifiche dei comportamenti e dei privilegi capaci di fare l’interesse generale. Così capita che si vada incontro alla morte come le falene attratte dal fuoco».
È l’attualità dell’intervento del Papa...
«Sì. In questo senso c’è attinenza fra la caduta dell’impero romano e la crisi che stiamo attraversando. Nei comportamenti di chi comanda, di chi gestisce il potere economico si evidenzia la medesima assenza di risorse morali da mettere in campo per far fronte ai problemi comuni. Per il resto non è realistico pensare agli ultimi secoli dell’impero d’Occidente come a una società particolarmente corrotta nei costumi, alla maniera di quella attuale».
C’è differenza fra le masse di allora rispetto a quelle di oggi?
«Dal punto di vista di quella che noi oggi intendiamo come corruzione dei costumi certamente sì. La corruzione morale delle masse di oggi è molto più simile a quella dei nostri governanti di quanto lo fosse allora. Paradossalmente, però, resta la stessa lontananza dal potere e la stessa impossibilità di incidere sui meccanismi decisionali».
Un deficit cronico di democrazia?
«A quell’epoca le masse non votavano e oggi votano. Nelle grandi democrazie occidentali di oggi il loro potere di scelta è assai ridotto. Negli Usa, per esempio, a votare è nei fatti una minoranza. E poi c’è l’enorme condizionamento dei media. Le suggestioni che emergono dai mezzi di comunicazione prevalgono su tutto. Così la responsabilità delle scelte è sempre nelle mani dei pochi che detengono il potere reale. Negli anni ’60 e ’70 si era pensato che la storia fosse guidata dalle masse. Oggi non lo crede più nessuno. A fare la storia sono pochi individui. Basti pensare al ruolo della massoneria in questo Paese. Riguardo all’analogia del Papa, c’è poi da dire che attualmente si assiste a una rivalutazione storico-divulgativa dell’epoca romana».
Si torna all’attualità dell’esempio di Benedetto XVI.
«Possiamo dire che oggi Roma è di moda. Non solo per fiction e letteratura. Anche per una certa storiografia del politicamente corretto, tesa a riabilitare il fallimento culturale del melting pot, secondo la quale la caduta dell’impero è stata, in fin dei conti, un incontro creativo fra civiltà, anche se cruento. L’aspetto politico e di gestione del potere economico viene sottovalutato, così come i loro egoismi e i loro errori».
© Copyright Avvenire, 22 dicembre 2010
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