lunedì 27 dicembre 2010

Norberto González Gaitano: Fin dai tempi evangelici la Chiesa raramente ha avuto una “buona stampa”. Per la Chiesa, a volte, godere di una buona stampa o non averla contro può essere sintomo di connivenza con i potenti... (Formiche)

Riceviamo e con grande piacere e profonda gratitudine pubblichiamo:

Una bussola nel difficile rapporto con i media

di Norberto González Gaitano

Si osserva spesso negli ambienti cattolici una candida visione dei mezzi di comunicazione che si manifesta in un’oscillazione dei giudizi: si va dalla condanna in blocco all’esaltazione semplicistica di tali mezzi, visti come doni della Provvidenza.
Insomma, si passa con facilità dalla totale fiducia al fiero sospetto, atteggiamenti normalmente ispirati da episodi riportati dai media in cui la Chiesa viene travolta dalle critiche o invece positivamente portata alla ribalta, e quindi chi li legge emette esplicitamente o inconsciamente
un verdetto di lode oppure di condanna dell’intero sistema dei media. I mezzi di comunicazione rimproverano la Chiesa di eccesso di segretezza, di ingenuità, di ingerenza politica, di ipocrisia di taluni suoi rappresentanti, di intolleranza e di tedio dei temi teologico-tecnici per la copiosa “cartocrazia”, come con ironia qualche teologo ha definito la tendenza ecclesiastica a produrre documenti. Le accuse non sono poche e non è la sede per approfondirle. È pur vero che le istituzioni della Chiesa sono state restie e lente nel creare dipartimenti di comunicazione, e soprattutto uffici stampa professionali. È altrettanto vero che spesso essa manca di esperienza e di conoscenza delle regole professionali del giornalismo: gli ecclesiastici pretendono spesso una pubblicità gratuita o un trattamento di favore che la stampa, gelosa della propria indipendenza, non dovrebbe concedere né ai politici, né a qualunque altra istituzione.
Non meno numerose sono le rimostranze della Chiesa ai mezzi di comunicazione. La stampa ha difficoltà a cogliere e a comunicare la dimensione strettamente spirituale del fatto religioso, e tende a soffermarsi sugli aspetti più superficiali e controversi; anche accusata di ostilità verso la religione o per lo meno di nutrire pregiudizi nei valori cristiani. A prescindere dal fatto che chi viene criticato vede sempre la propria immagine presentata in maniera negativa, non è facile valutare l’effettiva incidenza di questi pregiudizi e la parzialità dei media, tuttavia è chiaro che la fede e i valori morali dei giornalisti non sono indifferenti al fine del risultato.
Una terza critica viene mossa ai giornalisti, e anche in questo caso non solo dalla Chiesa: la loro indipendenza è apparente. La stampa pecca di servilismo verso i potenti.
Dietro queste vicendevoli critiche si celano non pochi equivoci e malintesi, facendo un esempio: la religione e il conflitto. Molti editori continuano ancora a pensare che la religione sia conflittuale per sua indole, che porti inesorabilmente alla divisione sociale e, in taluni circostanze, anche al conflitto aperto. Il fantasma storico delle guerre di religione, sotto le loro diverse vesti, non ultima di esse il terrorismo di matrice fondamentalista, si nasconde dietro a questa diffusa percezione. L’appello alla tolleranza come criterio di convivenza sembrerebbe escludere qualsiasi affermazione della religione nello spazio pubblico. Così la tolleranza si erge a criterio assoluto, indiscutibile della convivenza. Il problema è che cosa si intende per tolleranza. La tolleranza è senza dubbio un valore religioso per ogni autentica religione, ossia, per una religione che rispetta la natura libera dell’uomo; ma il concetto di tolleranza di una società relativista, che non riconosce la verità dei valori anche se dice di rispettarli, difficilmente si concilia con quello di religione. Quindi il problema non è la religione ma l’esclusione della ragione nel dibattito pubblico anche religioso: la religione, se è autentica, richiede la ragione per purificarsi delle strumentalizzazioni e delle sue corruzioni.
Altrimenti si rischia la tirannia della maggioranza o del politicamente corretto o di minoranze fanatiche auto-presentatesi come guardiani della purezza e dell’ortodossia religiosa. Inoltre non dovremmo dimenticare che i media non sono né rappresentano tutta l’opinione pubblica.
Riprendendo l’eterna domanda se sono i media a creare o meno l’opinione pubblica, si può riassumere la risposta con due affermazioni: i mezzi di comunicazione, da una parte, “forniscono la pressione ambientale alla quale le persone rispondono sollecitamente con acquiescenza o con il silenzio” e dall’altra costituiscono “una delle fonti di osservazione dell’opinione pubblica”.
Proprio perché sono una delle fonti, e non la fonte, spesso si produce il fenomeno di ignoranza pluralistica, una stima non corretta sulla forza delle opinioni opposte per una sopravvalutazione di quelle supportate dai media dominanti.
Bisogna quindi riconoscere la debolezza e al tempo stesso la forza dei media nei confronti dell’opinione pubblica: «La stampa – sostiene Lippmann- è più fragile di quanto la teoria democratica abbia finora ammesso; troppo fragile per portare il peso intero della sovranità popolare».
La scienza dell’opinione pubblica ha dimostrato empiricamente che spesso esiste un divario fra opinione pubblica e opinione pubblicata, divario specialmente riscontrabile negli issues con forte carica morale, come dimostra la teoria della spirale del silenzio della famosa ricercatrice tedesca Noelle-Neumann.
La sociologia ha ampiamente documentato che i media sono efficacissimi nel dire al pubblico attorno a cosa pensare ma non che cosa o come pensare (teoria dell’agenda setting), e che il sistema dei media è fortemente autoreferenziale e quindi talvolta vittima di se stesso (basta ricordare per esempio il caso del dottore Di Bella in Italia).
Finalmente la teoria del framing ha evidenziato parte del meccanismo che lega i media all’opinione pubblica e viceversa.
Entman descriveva così le funzioni svolte dai frame: definire i termini del problema, offrirne una interpretazione causale, incapsulare un giudizio morale su di esso e prospettarne una soluzione o rimedio, una linea di azione. Sicuramente il frame più riuscito della comunicazione politica degli ultimi tempi è stato quello di inquadrare gli eventi e la risposta successiva alle azioni terroristiche dell’11 settembre come “war on terror”, guerra al terrorismo. Come afferma Reese, gli antagonisti della politica estera di George Bush non sono riusciti a offrire un contro-frame efficace. Le critiche restano sempre imbrigliate nell’arena definita dal primo, che puntano, ad esempio, sul fallimento della “guerra al terrorismo”. Chi definisce per primo i termini di una contesa politica o ideologica è molto avvantaggiato, così che l’unico modo per contrastarlo è eseguire un’operazione di “re-framing”. Le precedenti considerazioni gettano luce sui meccanismi che regolano il rapporto fra opinione pubblica e Chiesa cattolica, sia in questo pontificato che nei precedenti, che non sono poi diversi dai meccanismi generali del rapporto fra media e società.
Fin dai tempi evangelici la Chiesa raramente ha avuto una “buona stampa”. Per la Chiesa, a volte, godere di una buona stampa o non averla contro può essere sintomo di connivenza con i potenti e di non realizzare l’impopolare compito di denuncia dell’immoralità.
Questo non significa che la Chiesa debba trascurare i mezzi di comunicazione. È essenziale sapere come viene percepita dalla gente, perché questo incide sulla capacità della Chiesa di compiere la sua missione. Da qui deriva la necessità di una adeguata attività di comunicazione istituzionale e di relazioni pubbliche. Tuttavia, una difficoltà di chi fa relazioni pubbliche per la Chiesa è la visione “strumentale” dell’informazione, cioè pensare che i media debbano essere “usati” per raggiungere obiettivi istituzionali.
Alcuni documenti della Chiesa esortano i fedeli ad usare i media per evangelizzare, il che non ha senso in riferimento ai media laici. I giornalisti rifiutano di essere usati per qualsiasi causa, benintenzionata che sia. Al contempo, è vero che alcuni di loro sono ostili alla Chiesa o alla religione in generale perché trovano il suo messaggio incomprensibile e quindi vorrebbero addomesticare la religione d’accordo con i loro standard di giudizio laicista.
Gli operatori ecclesiastici della comunicazione non fanno alcun bene né ai giornalisti né alla Chiesa se trattano i giornalisti con sospetto. Per chi cura i rapporti con la stampa per le istituzioni ecclesiastiche è essenziale comprendere i meccanismi qui esaminati, altrimenti rischia di confondere i piani, lavorando con buona volontà ma senza competenza.

NORBERTO GONZÁLEZ GAITANO Docente di Opinione pubblica presso l’Università della Santa Croce e autore di Public opinion and the catholic Church, Edusc, 2010

© Copyright Formiche anno VII - numero 54 - dicembre 2010

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