lunedì 27 dicembre 2010

Massimo D’Alema: Altro che chiedere alla Chiesa e al mondo cattolico di non ingerirsi! Io vorrei invece dire: «Ingeritevi! Se non ora, quando? (Formiche)

La necessaria virtù dell’ingerenza

di Massimo D’Alema

Il rapporto tra la Chiesa e il mondo moderno appare incentrato nella relazione tra la fede, la speranza e la ragione.
La fede intesa come portatrice di speranza e la ragione come scienza e storia. Una relazione che papa Ratzinger non percepisce come sfida della modernità alle religioni, ma che egli propone come un’alleanza e un’integrazione storicamente necessarie per affrontare le prove della interdipendenza, della globalizzazione, nella misura in cui esse minacciano l’uomo nella sua potenziale infinita libertà.
Non è un rapporto scontato, quello tra fede e ragione, ma comporta un’opera di decostruzione e ricostruzione intellettuale, nella quale il pontefice si era impegnato già come studioso e come cardinale. Il testo che, da un punto di vista laico, ancora colpisce di più resta proprio il confronto con Habermas, che delinea una prospettiva che va oltre il dialogo.
E va anche oltre quel reciproco riconoscimento di valori che ne è la condizione. Perché il dialogo, alla fine, rischia di ridursi alla mera ricerca di un compromesso, il che è ciò che si rende necessario sul terreno della politica e quando si tratta di regolare le vicende umane attraverso lo strumento della legge. Ma sul piano culturale occorre andare oltre. Il dialogo tra fede e ragione ci appare come un vero e proprio metodo per il ritrovamento di se stessi, come qualcosa che arricchisce da una parte e dall’altra. Da un lato, naturalmente, ciò comporta un riconoscimento più ampio della libertà religiosa, nel senso di quanto possa essere positiva e auspicabile la partecipazione dei credenti e della Chiesa al discorso pubblico. E ciò è ben lungi da ogni concezione della privatizzazione della fede, che è estranea alla civiltà europea e particolarmente estranea alla tradizione del nostro Paese.
Dall’altro lato, però, la Chiesa è chiamata a una pubblica e oggettiva traduzione razionale dei suoi valori e a definire i suoi rapporti con la politica. Compito tanto più complesso nella vicenda italiana, dove per molti anni – e non vi appaia un paradosso, ma è la storia che abbiamo vissuto –, il presidio più sicuro della laicità della politica è stato proprio il partito dei cattolici. Una questione diventata molto più problematica di recente, nel tempo che stiamo vivendo.
È bene definire, nell’edificazione della civitas, i rapporti della Chiesa con la politica, cosa più complicata che non stabilirne i confini. Come ha scritto papa Benedetto XVI, se è vero che è compito della politica individuare il giusto ordine della società e dello Stato, tuttavia è anche vero che, sebbene la Chiesa non possa e non debba sostituirsi allo Stato, essa non può neppure restare ai margini della tensione ideale verso la giustizia. Tutto questo configura un rapporto più complesso di una pura e semplice separazione. Comporta una dialettica, una visione
condivisa del bene comune, che, naturalmente, mette al centro il tema della giustizia, riconoscendo che essa non è assorbita dalla carità. Non basta essere compassionevoli, come certi conservatori. La fede non può surrogare la ragione e la carità non assorbe la giustizia.
Questo è, secondo me, un magistero di grande importanza, appunto perché chiarisce, anche rispetto ai timori dei laici, il tema del rapporto tra Chiesa cattolica e modernità, tra fede e ragione. Credo che questo sia il punto di partenza per quella che è stata definita una concezione inclusiva della laicità. Anche le parole hanno un loro peso. Il problema, infatti, non concerne il rapporto tra laici e cattolici, ma riguarda una laicità che non si oppone alla fede religiosa, ma la comprende in quanto valore costitutivo del bene comune. Semmai, dentro questa visione condivisa del bene comune – che si nutre anche della forza del messaggio cristiano – il vero problema è quello del dialogo tra credenti e non credenti, non tra laici e cattolici. Il problema è sia quello del riconoscimento da parte dei non credenti che la fede
religiosa è un lievito essenziale per una società più giusta e per una comunità autenticamente umana, sia del riconoscimento da parte dei credenti che non c’è un monopolio dell’etica, ma che ragioni integralmente umane possono fondare un impegno personale, civile, politico, coerente con
i principi etici. Dunque una visione inclusiva della laicità.
Prima della legge e persino più della legge, l’attenzione deve essere volta alla ricchezza, allo spessore del discorso pubblico.
Tutto questo aiuterebbe anche a individuare i limiti della legge. Il rispetto verso la vita, verso la persona e la sua dignità, comporta anche la consapevolezza che non tutto può essere normato dalla legge, che c’è una sfera della libertà, della responsabilità, dove ciò che conta è
l’etica condivisa, il tessuto dei valori e delle relazioni che unisce una comunità.
Lo dico perché questo potrebbe aiutare a sgombrare il campo da conflitti che nascono dall’equivoco o dall’illusione – questa, davvero, illuminista – che la legge formi l’etica. La caduta dei valori in Europa non nasce dalla violenza di un sentimento anticristiano, ma da una indifferenza che convive con il rispetto formale della religione e del suo primato nella società. Il che pone anche alla Chiesa qualche problema un po’ più complicato che non sfidare il laicismo “vecchia maniera” di chi vuole togliere i crocifissi dagli edifici pubblici e di chi non vuole considerare la fede cristiana tra le radici dell’Europa.
La quale, invece, ha bisogno della Chiesa. Una Chiesa universale che aiuti a compiere ciò che le ideologie antireligiose del ‘900 non hanno saputo realizzare, cioè quella unificazione del genere umano che è condizione perché la globalizzazione economica non porti con sé ingiustizie e conflitti.
L’Italia ne ha ancora più bisogno di altri. La crisi del processo europeo lascia il nostro Paese particolarmente smarrito e diviso, fino a mettere in discussione le ragioni stesse della sua unità, con un nord ricco che sente il sud come un peso e un Mezzogiorno che riscopre persino l’epica borbonica della rivolta contro l’occupazione piemontese. Insomma, si rimettono in discussione i capisaldi di una storia nazionale condivisa e accanto a un senso di smarrimento c’è anche un involgarimento del discorso pubblico. Permettetemi di dire esattamente il contrario di quello che ci si potrebbe aspettare da me. Altro che chiedere alla Chiesa e al mondo cattolico di non ingerirsi! Io vorrei invece dire: «Ingeritevi! Se non ora, quando?». Questo Paese ha avuto dal contributo dei cattolici un apporto straordinario alla costruzione della democrazia, all’allargamento delle basi di consenso dello Stato democratico. E sono profondamente convinto che, pur senza ritornare al mito, a mio parere tramontato alla fine della
Guerra fredda, dell’unità politica dei cattolici, sia possibile trovare un equilibrio tra pluralismo delle scelte politiche e l’unità dei cattolici sul piano ecclesiale, come componente
fondamentale della coesione del Paese. Mai come in questo momento è necessario tornare a lavorare insieme alla ricostruzione di uno spirito civico, di un nesso forte fra politica ed etica, e – più in generale – tra lavoro, vita personale ed etica. D’altra parte la crisi mondiale ci ha mostrato quanto l’economia abbia bisogno di essere eticamente istituzionalizzata
per non volgersi contro le ragioni dell’uomo. E davvero si può pensare che questo nesso tra etica e politica, tra professione ed etica, tra impresa, economia ed etica, possa essere ricostruito così fortemente senza un discorso pubblico che veda la presenza dei cattolici italiani? Non lo credo, sarebbe un’illusione. La volontà di riaprire questo discorso
non è ispirata da motivazioni elettorali. Viceversa, lo è da una vivissima e condivisa preoccupazione per l’avvenire dell’Europa e del nostro Paese, dalla necessità di un sussulto nello spirito civico degli italiani, che dovrebbe tradursi in una comune assunzione di responsabilità. In un momento così difficile ciò sarebbe naturale in un Paese civile dove ci fosse un senso condiviso del bene comune. Intendo, dunque, una comune assunzione di responsabilità. Ecco, anche per questa Italia sentiamo il bisogno di un incontro tra la ragione, le ragioni della politica e l’apporto prezioso della fede religiosa.

Estratto dell’intervento al convegno “Un’Europa cristiana?”. Per gentile concessione dell’autore

MASSIMO D’ALEMA Presidente del Copasir e presidente della Fondazione Italianieuropei

© Copyright Formiche anno VII - numero 54 - dicembre 2010

3 commenti:

Anonimo ha detto...

Timeo danaos et dona ferentes.
don a.b.c.

Anonimo ha detto...

Che sia la solita ricerca degli utili idioti al traino del carrozzone di sinistra? Che poi ci lascia a piedi quando si arriva ai nodi dell'inizio e fine vita ecc. ecc.? Non e' che dall'altra parte si stia meglio, pero'!

Anonimo ha detto...

O, come spero, sta cambiando idea...

http://www.ilgiornale.it/interni/bagnasco_corregge_dalema_chiesa_non_vuole_potere/31-05-2008/articolo-id=265448-page=0-comments=1

...o, come temo, sta solo tentando di convincere i cattolici che Casini può tranquillamente allearsi col Pd.

Alberto