Roma, alla scuola di Benedetto XVI un nuovo dialogo tra fede e ragione
Con la serata sull’intervento alla Westminster Hall Ornaghi, Marzano, Toso e il cardinale Vallini hanno chiuso la serie d’incontri promossi dal vicariato sui grandi discorsi del Papa
Fabrizio Mastrofini
DA ROMA
Non basta una religione «civile » e pertanto una «sana democrazia» ha bisogno «di riconoscere le fedi personali e la loro appartenenza comunitaria».
Su questa indicazione c’è stata la convergenza, giovedì scorso a Roma, nel dibattito seguito all’ultimo dei tre appuntamenti di studio su altrettanti grandi discorsi di Benedetto XVI.
Al centro della serata promossa dal vicariato di Roma il discorso pronunciato dal Papa alla Westminster Hall di Londra, il 17 settembre 2010, nell’incontro con esponenti della società civile, del mondo accademico, culturale e imprenditoriale, presenti il corpo diplomatico e autorità religiose.
Sul tema «Secolarità non è neutralità: un nuovo cammino per lo sviluppo integrale della persona umana » il vescovo Mario Toso, segretario del Pontificio Consiglio della giustizia e della pace, Lorenzo Ornaghi, rettore dell’Università Cattolica del Sacro Cuore e Antonio Marzano, presidente del Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro, hanno offerto le loro riflessioni. Il cardinale vicario Agostino Vallini, nel chiudere la serata e il ciclo degli appuntamenti, ha sottolineato una volta di più la «fecondità» del magistero di Benedetto XVI sui vari temi del rapporto tra fede e società civile, tra fede e politica e in ultima analisi – ha rilevato – sulla necessità di un nuovo dialogo tra fede e ragione.
Toso ha osservato che «la dimensione religiosa della persona non esula dall’universalità della ragione, semmai la trascende, senza contraddirla. La fede dei cittadini e le corrispondenti comunità religiose alimentano quel capitale sociale – fatto di relazionalità stabili, di stili di vita, di valori condivisi, di amicizia civile, di fraternità – di cui ogni democrazia non può fare a meno, se non vuole ridursi a pura amministrazione conflittuale di interessi disparati ». Se questo è vero, le democrazie devono coltivare nei confronti delle religioni «un atteggiamento di apertura non passiva, ma attiva, nel senso che debbono riconoscere e promuovere, per ciò che concerne la loro competenza, lo spazio pubblico – ben distinto dall’istituzione statale e nella stessa società civile – ove si plasmano quelle famiglie spirituali e culturali, quell’èthos, che le vivifica specie nell’edificazione plurale e convergente del bene comune».
Ornaghi ha evidenziato l’importanza dei valori nella costruzione di un tessuto comune, nella politica, nella formazione delle nuove generazioni, che vanno spinte a «guardare oltre lo spiraglio dell’immediato presente ». I valori, secondo il rettore della Cattolica, sono un richiamo al ruolo che la religione gioca nella «riumanizzazione delle nostre società oramai multiculturali».
Secondo i relatori, infine, il tentativo odierno di rimuovere la religione dalla sfera pubblica, mentre si ripromette di rendere più vivibile e pacifica la vita democratica, di fatto ne provoca l’indebolimento, perché le sottrae linfa vitale. L’etica scettica odierna, ha notato Vallini, va contrastata nel nome di una visione del mondo aperta al Trascendente.
© Copyright Avvenire, 5 febbraio 2011
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3 commenti:
Per oggi, fermati! Hai lavorato abbastanza
buongiorno e buona domenica carissima,
se puoi, leggi il mattutino di Ravasi sull'Avvenire di oggi. Riflessioni sull'anonimato e i pericoli dell'omologazione colettiva in questo tempo di deriva del pensiero e della coscienza
ecco il mattutino sopra segnaslato, consultabile on line anche sul seguentre link
http://www.avvenire.it/GiornaleWEB2008/Templates/Pages/ColumnPage.aspx?IdRubrica=.mattutino&TitoloRubrica=Il+mattutino&Autore=Gianfranco%20Ravasi
Il mattutino a cura di Gianfranco Ravasi 06/02/2011
Una fiumana umana
Il maggior pericolo non è tanto la tendenza della massa a comprimere la persona, ma la tendenza della persona a precipitarsi ad annegare nella massa. Se in un pomeriggio di festa come oggi si dovesse contemplare dall'alto piazza Duomo e le vie adiacenti, a Milano, o via del Corso e le traverse che raggiungono piazza di Spagna, a Roma, si avrebbe l'incarnazione della metafora «una fiumana umana». È, infatti, una sorta di vortice che dilaga in ondate di corpi che si muovono compatti, spinti dalla deriva che lascia ai bordi solo i detriti dei venditori ambulanti o dei mendicanti. Ancor più impressionante è la metafora del «branco», applicata soprattutto ai giovani, rappresentazione di un «collettivo» che contiene nel suo grembo germi ferini di violenza (chi non ricorda Arancia meccanica?). Una finissima interprete dell'esistenza come Simone Weil, ebrea parigina di straordinaria intelligenza e spiritualità, ci mette impietosamente - nel passo da noi tratto dai suoi Scritti di Londra - di fronte a un'amara verità. Se è vero che la massa schiaccia e talora annulla la persona, è ancor più vero che sotto quello schiacciasassi molti si distendono quietamente aspettando di essere «spianati» da ogni loro identità o, per stare all'immagine della fiumana, vi accorrono per annegarvisi. L'avere una convinzione propria e tenerla ben eretta come una fiaccola sopra la marea delle teste «omologate» è un impegno serio e severo. La folla anonima può persino essere un orizzonte sicuro in cui riparare, dissolvendo in essa non solo le proprie paure, ma anche la fede, l'identità e la coerenza. La massa o la grigia collettività non è mai da scambiare con la comunità viva in cui le diversità creano armonia nell'unità.
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