giovedì 17 febbraio 2011

Senza etica non c'è impresa. Emma Marcegaglia commenta l'enciclica Caritas in veritate

Senza etica non c'è impresa

di Emma Marcegaglia

L'enciclica di Benedetto XVI è stata ed è ancora per noi tutti, per credenti e non credenti, una straordinaria occasione di riflessione in questi anni di aspra crisi. Come Confindustria, e io personalmente come suo presidente, abbiamo espresso un giudizio molto positivo sulla Caritas in Veritate.
Ovviamente, non tocca a noi entrare nel merito teologico dell'analisi interpretativa ed evolutiva del magistero sociale della Chiesa, al quale l'enciclica ha aggiunto un nuovo importante mattone, sulla scia che dalla Rerum Novarum di Leone XIII passa per la Populorum Progressio di Paolo VI, la Laborem Exercens, la Sollicitudo Rei Socialis, e la Centesimus Annus di Giovanni Paolo II.
Come imprenditori, ci tocca riflettere sulle parti dell'enciclica che più direttamente riguardano il mercato, lo Stato e il ruolo centrale dell'uomo. (...) L'impresa non è mai l'unica protagonista dei propri successi, né l'unica colpevole dei propri insuccessi. Ma oggi si sente impegnata come mai, per i colpi della crisi e per i gap storici del nostro paese, nella realizzazione comune di quella nuova "responsabilità sociale" indicata anche dalla Chiesa.
L'enciclica mostra anche quanto sia ormai superata la vecchia idea tradizionalmente associata a Max Weber, quella secondo la quale l'avversione della Chiesa cattolica per i beni terreni spiegasse un suo pregiudizio anticapitalista. Benedetto XVI e Giovanni Paolo II prima di lui sostengono la crescita, rafforzandola con indicatori dello sviluppo umano come propongono tanti liberali come Amartya Sen. E riprendono la Teoria dei sentimenti morali di Adam Smith, chiedendo un mercato in cui regole e principi pongano un limite alla finanza per la finanza. È semmai il mondo calvinista, quello che aveva dimenticato le buone regole di Adam Smith sulla fiducia e le regole da preservare, che ci ha regalato gli eccessi della finanza strutturata.

È per tutto questo che voglio e posso affermare che per la Confindustria, che ho l'onore di guidare, l'etica come fondamento dell'impresa non è una scelta che discenda dal solo fatto che sia giusta. Non serve solo a preservare meglio la comunità d'interessi che vive all'interno delle aziende. L'etica è un fondamento dell'impresa anche perché contribuisce a produrre migliori utili. Essa rafforza il presupposto basilare senza del quale non c'è libero mercato. Il libero mercato non è la lotta di tutti contro tutti in cui vince il più forte. È una gara entro un solido quadro di regole, nella quale deve primeggiare non il più forte ma il più bravo. Ed è un monito che deve valere in tutti gli ambiti del mercato. A cominciare dalla finanza da cui questa crisi è partita.
La finanza etica non è solo quella dell'economia del dono, quella di chi divide il mantello per darne una parte al povero come fa san Martino. L'economia del dono ha un ruolo determinante nel volontariato e nel terzo settore, essenziali per la sussidiarietà e la miglior soddisfazione di domande sociali alle quali lo Stato non può rispondere, primo perché non ne ha le risorse, e secondo perché lo sa fare peggio di chi dal basso conosce e soddisfa meglio la domanda che viene da una società in cui aumentano anziani, immigrati e giovani a basso reddito. Ma, ripeto, la finanza etica non è solo quella del dono.
La finanza etica, nel mondo colpito ancor oggi da una crisi così dura, ha due declinazioni essenziali. Nel campo pubblico, chiede innanzitutto alla politica una svolta decisa, rispetto all'eccesso di debito pubblico, di spesa pubblica in deficit e di tasse. La lezione della Grecia non vale solo per quel paese, in un mondo in cui i debiti pubblici di paesi fino a due anni fa in apparenza virtuosi stanno rapidamente salendo verso proporzioni italiane. Ma nel campo privato, finanza etica vuol dire essere capaci di dare credito a soggetti ai quali, con teorie dello sconto basate esclusivamente sui criteri patrimoniali - di Basilea 2 e domani Basilea 3 per intenderci -, invece lo si negherebbe. Soggetti che hanno serietà e capacità di pagare non solo gli interessi sugli impieghi loro concessi, ma che attraverso di essi estendono ulteriormente la capacità di creare reddito e produzione, consumi e investimenti. Creando nuove imprese, estendendo le frontiere del mercato, rafforzando i presupposti della crescita e accrescendone il dividendo sociale.
La lezione del Nobel Yunus, che attraverso questa finanza etica ha fatto di migliaia e migliaia di donne e poveri dei veri microimprenditori in Pakistan e India, è una svolta che deve e può valere anche da noi.
Dalla terribile crisi che ci ha colpito, usciremo più forti se torneremo a crescere come da molti anni in Italia non avveniva più. Ma è per fare questo che abbiamo bisogno di etica nella finanza ed etica nell'impresa: perché così facendo si estenderà il numero e la forza dei protagonisti della crescita. Ed è allora che scopriremo che l'etica è un moltiplicatore economico, non solo un comandamento morale. Se poi lo riscoprirà anche la vita pubblica, oltre che quella economica, sarà un doppio, se non triplo e quadruplo vantaggio per tutti.

Emma Marcegaglia è presidente di Confindustria
L'articolo è uno stralcio dell'intervento tenuto all'incontro «Cattedrale aperta» di ieri a Genova

© Copyright Il Sole 24 Ore, 17 febbraio 2011 consultabile online anche qui.

1 commento:

Anonimo ha detto...

Off-topic

15 preti e diaconi della diocesi di Friburgo appoggiano il memorandum dei teologi tedeschi e si preparano a distribuire un loro lettera in tal senso a tutti i sacerdoti e diaconi della diocesi.
So che è off-topic, ma per chi ieri invitava i tradizionalisti a riconoscere che "ubi Petrus, ibi ecclesia"...forse i problemi più grossi con l´autorità papale bisognerebbe cercarli altrove...

Jacu