domenica 13 febbraio 2011

Tommaso d'Aquino e la vera libertà dei teologi. Gli occhi della Chiesa (Inos Biffi)

Tommaso d'Aquino e la vera libertà dei teologi

Gli occhi della Chiesa

di Inos Biffi

Tommaso d'Aquino chiama i «sacri dottori (sacri doctores)», gli «occhi» della Chiesa: «Come nel corpo c'è l'occhio, così nella Chiesa ci sono i dottori» (sicut [...] oculus est in corpore, ita doctores sunt in Ecclesia; Contra impugnantes, 2, 2, c).
Tra questi «sacri dottori» sono compresi i teologi, quelli cioè che dedicano la loro vita, direbbe lo stesso Tommaso, allo studium sapientiae o alla contemplazione, nell'intento di ottenere l'«intelligenza della fede» (intellectus fidei), secondo l'espressione cara ad Anselmo d'Aosta (Proslogion).
I filosofi, seguendo «l'inclinazione naturale che c'è nell'uomo di conoscere la verità riguardante Dio» (Summa Theologiae, i-ii, 2, 94, 2, c), considerano le cose del mondo per salire a lui; i teologi, grazie alla Rivelazione, considerano i segreti di Dio per discendere nel mondo. La teologia, quindi, come lo sguardo proprio di Dio sulla realtà.
Nel 1256, alla prima lezione inaugurale del suo magistero dottorale, in cui commenta il versetto 13 del Salmo 103: «Colui che irriga i monti dalle sue alte dimore» (Rigans montes de superioribus suis), parlando della «dignità» (dignitas) dei dottori, Tommaso d'Aquino afferma: «I monti sono illuminati per primi dai raggi del sole; similmente i dottori ricevono per primi lo splendore dell'intelligenza. Come i monti, infatti, i dottori sono i primi a essere illuminati dai raggi della sapienza divina; ed è detto nel salmo 75, 5: Quando tu illumini in modo meraviglioso dai monti eterni, sono turbati tutti gli stolti di cuore, cioè dai dottori che partecipano dell'eternità, di cui in Filippesi 2, 15 è detto: In mezzo a loro splendete come astri nel mondo» (Primo enim montes radiis illustrantur. Et similiter sacri doctores mentium splendorem primo recipiunt. Sicut montes enim doctores primitus radiis divinae sapientiae illuminantur, Psal. 75, 5: illuminans tu mirabiliter a montibus aeternis, turbati sunt omnes insipientes corde; id est a doctoribus qui sunt in participatione aeternitatis, Philipp. 2, 15: inter quos lucetis sicut luminaria in mundo).
Veramente, la visione teologica appartiene a ogni credente che, accogliendo nella fede la Parola di Dio, si ritrova in dono «gli occhi illuminati del cuore» (cfr. Efesini, 1, 18) o il «lume della fede» (lumen fidei), com'è chiamato nella tradizione patristica e scolastica, che anche parlava dell'«occhio della fede» (oculus fidei), mentre già Tertulliano parlava di «fede dotata degli occhi» (fides oculata).
È, infatti, intrinseco alla fede l'«istinto» della sua comprensione. Manifestandosi all'uomo, Dio gli affida i suoi segreti, perché li iscriva nell'intelletto e nell'affetto e diventino, così, oggetto del suo pensiero e del suo amore. È nota la definizione agostiniana della fede: «un aderire accompagnato dalla riflessione» (cum assensione cogitare), che san Tommaso commenta dicendo: l'atto del credere «comporta un'adesione ferma, tuttavia la sua conoscenza non si compie mediante una percezione evidente» (habet firmam adhaesionem [...] et tamen eius cognitio non est perfecta per manifestam visionem; Summa Theologiae, ii-ii, 2, 1, c).
Ecco perché, continua ad affermare l'Angelico, «la conoscenza della fede non acquieta il desiderio; anzi, lo accende ancora di più, perché tutti desiderano vedere ciò che credono» (cognitio [...] fidei non quietat desiderium, sed magis ipsum accendit, quia unusquisque desiderat videre quod credidit; Summa contra Gentiles, III, 40).
In altri termini: «Il fine della fede è quello di giungere a capire quelle cose che crediamo» (finis fidei est nobis, ut perveniamus ad intelligendum quae credimus; Super Boetium de Trinitate, 2, 2, 7m).
Da questo profilo ogni credente appare istintivamente inclinato a essere teologo.
È, dunque, la forza stessa della fede a premere per diventare quanto possibile contemplazione, e così soddisfare l'intelligenza, che, vedendo quello che ama, provoca compiacenza e gioia. Più uno crede, «vede»; e più uno «vede», ama. È la peripezia del teologo.
Il quale, tuttavia, non va considerato isolato e a sé, ma nella sua appartenenza alla Chiesa, alla quale viene anzitutto affidato il mistero. I sacri dottori sono gli occhi nel corpo che è la Chiesa, perché è in essa che la teologia diviene una scelta di vita.
La radice della loro professione è la fede custodita e vivente nella Chiesa, semplicemente comune a tutti i credenti. Da qui la natura profondamente ecclesiastica della teologia. Quello dei teologi non è un pensare né sopra né a prescindere dalla fede della Chiesa. Il sapere globale della Chiesa è sempre maggiore del sapere di qualsiasi, per quanto acuto, teologo, il quale rimane sempre da essa giudicabile, in particolare dal Magistero dei «sacri dottori» intesi come i maestri della fede.
Questo non vuol dire che la Chiesa riconosca subito il valore di un pensiero teologico, né che il suo giudizio in merito sia sempre infallibile: la storia dimostra che spesso il riconoscimento richiede tempo e che non sempre sono risparmiate al teologo dolorose afflizioni. Un teologo deve prepararsi ad attendere, in questa vita o anche nell'eternità. Una volta ancora possiamo citare come esempio ammirevole il biblista Padre Lagrange, con le sue traversie.
Uno degli indici di serietà teologica è anche la pazienza, il senso delle proporzioni, la «modestia» o la «misura», l'attesa, la diffidenza nei confronti della facile pubblicità, la non facilità a porsi nello stato di vittima o di genio incompreso. A chi vi si dedichi, senza ulteriori mire, la teologia ha sempre di che soddisfare l'esistenza di uno studioso cristiano.
Oggi forse troppo gratuitamente ci si autoproclama teologi: oppure si perde vanamente il tempo a discutere della libertà del teologo invece di faticare a tempo pieno per diventarlo.
Senza dubbio, va precisato che la finalità della teologia non è propriamente né solo quella di spiegare o giustificare il Magistero, che d'altronde è per il teologo, come per tutti i credenti, un punto imprescindibile di riferimento, né è quella di limitare le sue indagini all'area delineata dallo stesso Magistero.
Guida del teologo è la Parola di Dio situata e autorevolmente interpretata nella Chiesa, il cui magistero è per lui come per tutti riferimento e dimensione imprescindibile. Egli tende, cioè, a pensare tutta la Rivelazione, quand'anche essa non abbia trovato la forma di un'esplicita proposizione magisteriale, e sarà l'intera Chiesa a beneficiare di questi approfondimenti. Si pensi ai due casi più illustri, quello di Agostino e quello di Tommaso d'Aquino, che hanno indagato su tutto l'arco del mistero cristiano, col risultato di segnare profondamente il contenuto e il linguaggio dello stesso Magistero.
D'altra parte, una teologia che reclami autonomia e indipendenza rispetto all'insegnamento della Chiesa si pone metodologicamente fuori strada, dal momento che il suo oggetto non è la Parola che Gesù Cristo ha consegnato alla sua Chiesa tramite gli Apostoli e la successione apostolica, da lui disposta come testimonianza e garanzia infallibile dell'autenticità dell'insegnamento evangelico. La libertà della teologia non significa riflessione arbitraria e indipendente.
Su questa via semplicemente non avremmo più la teologia cristiana e la pretesa di esserlo sarebbe abusiva.
Per tornare a san Tommaso: il suo appare un modello chiarissimo di teologia «libera» ma insieme consapevole della sua «relatività», che le assicura l'«ortodossia».
Proporre una dottrina in contrasto con quella insegnata dai «sacri doctores» -- intesi come i maestri autorevoli nella Chiesa (cfr. Atti degli Apostoli, 20, 28) -- vorrebbe dire perdere la prerogativa di essere un «dottore della verità cattolica» (catholicae veritatis doctor, come Tommaso chiama il teologo (Summa Theologiae, i, 1).
Deplorevolmente oggi parrebbe che l'eresia non esista più. In ogni caso già Paolo raccomandava a Tito di insegnare «quello che è conforme alla sana dottrina» (Tito, 2, 1), mentre, esortando Timoteo ad annunciare la Parola di Dio, gli prediceva: «Verrà un giorno in cui non si sopporterà più la sana dottrina» (2 Timoteo, 4, 2-3).
Quanto a Tommaso, sempre nel discorso inaugurale del suo insegnamento, assegnava al teologo il compito di difendere la fede contro gli errori: «I monti difendono la terra dai nemici; allo stesso modo i dottori della Chiesa devono essere impegnati a difendere la fede dagli errori» (Per montes terra ab hostibus defenditur. Ita et doctores ecclesiae in defensionem fidei debent esse contra errores).
Ma sembra un compito che oggi non entusiasma molto i teologi, intenti a dialogare e a complimentarsi e ad ammirarsi a vicenda.
Importa, comunque, chiarire che la libertà di insegnare l'eresia è altra cosa rispetto alla libertà della ricerca teologica, ossia di una ricerca nell'ambito di una scienza che per definizione è «scienza della fede» (scientia fidei), che, d'altronde, lascia uno spazio immenso e stimolante alla più sorprendente originalità.
Possiamo fare ancora una considerazione, per distinguere tra la teologia come frutto dell'ingegno, dello studio, della ricerca che abilitano a occupare una cattedra, con una «licenza di insegnare» (licentia docendi), e la teologia «sapienziale», che si riceve in virtù della grazia.
Si possono certamente «sentire le cose di Dio» (pati divina), averne l'esperienza, anche se non si è teologi «di professione». Basta essere in grazia di Dio, come una volta si diceva, e avere quindi il dono dello Spirito Santo, che è la sapienza.
Lo rileva san Tommaso, quando parla della conoscenza sapienziale «per inclinazione» o «per una certa connaturalità», distinguendola nettamente dalla teologia come «giudizio che si ottiene attraverso lo studio e la ricerca» (Summa Theologiae, I, 1, 6, 3m).
È questo secondo il senso da noi qui assegnato al termine teologia, la quale, così compresa, richiede lavoro assiduo, spesso non gratificante, restìo a improvvisazioni, o folgorazioni, esigente di disciplina e di assidua esercitazione dell'intelletto nel campo sia storico sia speculativo.
Con la conclusione che senza una vera ascesi rigorosa, severa e prolungata, difficilmente si diviene dei veri teologi. La scienza teologica, del resto come ogni scienza, non fa sconti a nessuno e non la si acquista a buon prezzo.
Per finire, può essere illuminante ricordare un testo forse meno noto di san Tommaso sulla «gratuità» della teologia.
La teologia o la «contemplazione della sapienza» ha in se stessa il proprio fine e la propria ricompensa. Essa «si può giustamente paragonare al giuoco, per due ragioni: la prima perché il giuoco è motivo di gioia, e la contemplazione della sapienza è fonte della più grande gioia; la seconda perché gli atti del giuoco sono ricercati per se stessi, e non sono ordinati ad altro: lo stesso avviene nel piacere che provoca la sapienza e che non ha la sua causa al di fuori di essa, per cui non produce nessuna ansietà, come se mancasse di qualcosa che attende» (Sapientiae contemplatio convenienter ludo comparatur, propter duo quae est in ludo invenire. Primo quidem, quia ludus delectabilis est, et contemplatio sapientiae maximam delectationem habet [...]. Secundo, quia operationes ludi non ordinantur ad aliud, sed propter se quaeruntur. Delectatio contemplationis sapientiae in seipsa habet delectationis causam: unde nullam anxietatem patitur, quasi expectans aliquid quod desit; In Boëthii de Hebdomadibus, Prologus).
È come dire che la ricompensa a una vita trascorsa a far teologia è in un certo senso la teologia stessa, che nasce dalla passione della visione di Dio e in certa misura ne è il preludio. Si può anche diventare più buoni a far teologia, ma Tommaso giungeva a dire, a differenza di Bonaventura, che non si fa teologia per essere buoni, semmai la si puo fare perché si è buoni. Infatti, la sacra dottrina non è una scienza pratica, ma speculativa: attratta tutta ed esaurientemente a Dio, oltre il quale non c'è nulla.

(©L'Osservatore Romano - 13 febbraio 2011)

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