sabato 7 maggio 2011

La fede nel Triveneto ovvero l'occasione di una riscoperta. Indagine sociologica sulla popolazione del Nord Est d'Italia e sulle sue convinzioni religiose (O.R.)

Indagine sociologica sulla popolazione del Nord Est d'Italia e sulle sue convinzioni religiose

La fede nel Triveneto ovvero l'occasione di una riscoperta

di Alessandro Castegnaro*

Non è possibile comprendere il Nord Est senza retrocedere di qualche decennio. Negli anni Cinquanta la gente viveva ancora in una società semicontadina, il tenore di vita era basso, molti erano poveri; le città del triangolo industriale, della Svizzera, le regioni minerarie della Francia e del Belgio erano affollate di veneti e friulani emigrati in cerca di fortuna; i paesi erano gremiti di bambini e la famiglia era il centro del mondo, ragione di sacrificio, fonte di sicurezza e solidarietà. La società era omogenea, apparentemente strutturata in base al principio: una parrocchia, una comunità, una religione. Era il «mezzogiorno del Nord».
Verso la metà degli anni Cinquanta inizia il decollo industriale e tutto cambia. Si afferma «il modello Nord Est»: industrializzazione impetuosa, economia diffusa e piccola dimensione. La disoccupazione scompare. Si diffonde il benessere e gli stili di vita diventano affluenti, consumistici. Si continua per un bel po' a considerarsi poveri, ma è solo un effetto di trascinamento. Le statistiche inesorabilmente dicono il contrario.
Il futuro per un po' appare luminoso e prevedibile; è quello delle società benestanti con le loro attese di benessere e felicità. Ma nel giro di un paio di decenni si fa più grigio. Non c'è più un modello o un mito a cui tendere. Qualcosa ha deluso. E l'incertezza comincia a pesare. Con il nuovo millennio lo sviluppo rallenta, non più che altrove, ma rallenta. La «grande crisi» colpisce anche qui. Più che la povertà aumenta il senso di vulnerabilità, la sensazione di precarietà, l'imprevedibilità del futuro. Negli ultimi tre anni la disoccupazione giovanile raddoppia. Diventare adulti, farsi una famiglia, appare un'impresa. Per la prima volta molti giovani sanno che non c'è un miglioramento davanti a loro, ma un arretramento e la diversità non potrebbe essere più grande rispetto a quanto i loro genitori hanno sperimentato.
Nel frattempo il paesaggio sociale è cambiato. Arrivano popolazioni multicolori dal linguaggio esotico e indecifrabile. Nelle scuole e nelle strade i bambini sono pochi, spesso figli di stranieri; la popolazione è invecchiata, si diffondono le «badanti». La famiglia soffre le pene di tutte le società avanzate: i matrimoni diminuiscono, le separazioni aumentano. La cultura un tempo omogenea si fa plurale e diventa più difficile capirsi, fidarsi, anche tra conterranei. Il super-lavoro e il benessere non hanno dato quanto si sperava, la sicurezza appena raggiunta appare minacciata, i punti di riferimento sociali e culturali sono diventati incerti. È l'intero mondo sociale che dapprima cambia e poi sembra non offrire più ciò che ha promesso.
L'effetto è di spaesamento e di frustrazione. E un atteggiamento di chiusura e di difesa di «ciò che è nostro», la ricerca di un capro espiatorio per darsi ragione di questo improvviso ripiegamento di prospettive, diventano una tentazione costante cui molti indulgono, ma per fortuna non tutti.
Nel frattempo, su di un piano che è altro, ma non separato, quello della religiosità, le trasformazioni non sono da meno. A ben guardare la secolarizzazione ha proceduto con tempi diversi nelle regioni che compongono il Nord Est: si è presentata dapprima in Friuli Venezia Giulia, in tempi più recenti si è diffusa in Veneto e in Trentino Alto Adige. Oggi i principali indicatori socio-religiosi, pur evidenziando ancora diversità non trascurabili, indicano un processo di avvicinamento.
Come diretta conseguenza dei processi migratori la fine di quello che poteva sembrare un monopolio cattolico appare in atto e lo sviluppo di una società caratterizzata da pluralismo religioso è alle porte. Già oggi i cattolici, che un tempo superavano il 90%, sono stimabili attorno al 78-79%.
Le pur rilevanti trasformazioni della religiosità, peraltro, non hanno finora assunto la forma del pluralismo di religioni nella popolazione autoctona. Possiamo stimare che nel 2007 i battezzati cattolici siano, tra i nati dalla popolazione originaria del Nord Est, ancora quasi nove su dieci e dunque molti. Non a caso il cammino di iniziazione cristiana è seguito dai ragazzi in modo quasi generalizzato, dando l'illusoria impressione che nulla sia cambiato.
La secolarizzazione si è manifestata qui semmai come una sorta di pluralizzazione interna al campo cattolico. Nel senso che il fatto di definirsi cattolici è diventato compatibile con modi altamente differenziati e personalizzati di concepire e di vivere le credenze, l'esperienza religiosa, il senso di appartenenza alla Chiesa, le scelte morali e le pratiche religiose. Le combinazioni possibili delle dimensioni costitutive della religiosità appaiono oggi infinite e alcune non prevedono né un livello apprezzabile di pratica religiosa, né il riconoscimento di un ruolo decisivo alla Chiesa.
La credenza fondamentale nell'esistenza di Dio è qui ancora molto diffusa, in quote superiori al 90%, anche se non sempre nella forma della certezza. Ma solo il 50-60% della popolazione pensa al Dio cristiano e una metà circa se ne è fatto una immagine impersonale, contrastante con quella appresa nel cammino di catechesi.
Non è una sorda incredulità a prosperare, ma la scoperta che dentro di sé sono all'opera spinte contrastanti, per cui il desiderio e la difficoltà di credere procedono accostati, senza che l'uno prevalga sull'altra. È una dinamica che appare evidente se si considerano altri aspetti del credo cristiano, come il tema della vita eterna: qui la credenza maggioritaria nell'idea che qualcosa continui (60-63% di certi e 24-25% di incerti) si sfarina in una minoranza che crede con sicurezza nella Risurrezione (30-32%) e in un esteso gruppo aggrappato sul crinale del credere e del non credere (41-42%).
A mutare con maggiore rapidità è la pratica religiosa. All'inizio degli anni '60 Burgalassi stimava che gli osservanti il precetto festivo fossero in Veneto l'80%, il 30% in più delle altre regioni del Centro Nord. Le stime poi sono andate calando. Nel 1973 la Doxa lo accredita di un 48%. A metà degli anni Ottanta, pochi anni prima che le Chiese del Triveneto convenissero per il loro primo convegno di Aquileia (1990), le indagini dell'Osservatorio Socio-Religioso Triveneto stimavano nel 31% i presenti in chiesa la domenica (corrispondenti a circa il 37% degli obbligati). Negli anni successivi la flessione si attenua ma non cessa; e si fa più robusta tra i giovani e le donne. Qualche anno fa coloro che si dichiaravano praticanti regolari erano compresi tra il 26 e il 28%; ma secondo i sacerdoti e secondo i censimenti dei presenti sono di meno. Il cammino di avvicinamento alle medie nazionali si è probabilmente concluso.
Ma la pratica, per quanto importante, è solo uno degli aspetti della religiosità e se le forme di questa cambiano essa finisce per dire meno di un tempo. Non a caso, ogni tre persone che vanno assiduamente in chiesa la domenica, ve ne sono altre 1,5-2 che frequentano poco, ma pregano tutti i giorni, segno inequivocabile di forme di religiosità non insignificanti, ma nascoste nelle pieghe del privato.
E del resto il rapporto con la Chiesa è uno degli ambiti in cui il cambiamento è più evidente, soprattutto tra i giovani e, ancor di più, tra le ragazze. Da un lato si avverte un forte riconoscimento della Chiesa cattolica in quanto custode di grandi insegnamenti, in cui ci si può riconoscere anche quando non si è battezzati; dall'altra si avverte una crescente difficoltà a far proprio il suo apparato normativo. Può avvenire, come accade in Alto Adige, che quasi tutti i bambini vengano battezzati (in percentuali superiori al 90%) e che quasi la metà di loro nasca da madri italiane non coniugate (48%). È l'epoca del primato della coscienza individuale e della ricerca di forme personalizzate di adesione alla religione.
Emergono dunque molti cattolicesimi: quello di chi riesce a credere ancora con semplicità, come nelle numerose forme di religiosità popolare; quello di chi sperimenta direttamente una presenza, magari mediata dall'adesione a un movimento o a un culto particolare; quello di chi, oggi come un tempo, ritiene che l'essere religiosi sia essenzialmente una questione di andare in chiesa e comportarsi bene; quello di chi crede e prega, ma non va a messa e non si sente molto parte della Chiesa; quello di chi va in chiesa ma non prega; quello di chi cerca nella religione la propria identità culturale, un baluardo a difesa delle tradizioni locali, un antidoto contro lo spaesamento, lasciando sullo sfondo la questione del credere; quello, infine, di chi non può evitare le domande dell'uomo contemporaneo e vive sul crinale di una instabile ricerca.
Tutto questo dice in sostanza che nel Nord Est si è usciti da un cristianesimo socialmente determinato, di tradizione, «assorbito con il latte materno», nutrito dalle tradizioni comunitarie e nel quale l'identità religiosa appare data per scontata. E che si sta andando verso un cristianesimo scelto, di elezione, un cristianesimo nel quale l'identità religiosa sarà sempre più il frutto di una scelta e di una appropriazione personale. Qui, come altrove, il futuro della religione sarà sempre più una questione di fede; di generazione della fede più che di una sua automatica trasmissione. Proporre la fede in un contesto di libertà: è questo oggi il fascino per l'annuncio cristiano nel Nord Est.

*Presidente dell'Osservatorio socio-religioso Triveneto

(©L'Osservatore Romano 8 maggio 2011)

La devozione per sant'Antonio

Il nuovo pellegrino è adulto e preparato

Tra le numerose manifestazioni di pietà popolare che caratterizzano le regioni di Nord Est una delle più vive e seguite è quella antoniana, che trova nella basilica del Santo a Padova il suo centro gravitazionale. Si stima che nelle sei giornate tra il 15 e il 20 febbraio 2010, durante le quali le spoglie di sant'Antonio sono state esposte in occasione della loro traslazione, ben 200.000 persone siano venute a venerarle. I risultati di un'indagine realizzata in quei giorni dal «Messaggero di Sant'Antonio» in collaborazione con l'Osservatorio Socio-Religioso Triveneto sembrano tali da porre in dubbio alcuni radicati preconcetti sulla religiosità popolare.
Inaspettatamente, il profilo sociale del «popolo di Antonio» è molto più simile a quello della popolazione nel suo insieme che a quello dei cattolici praticanti. I pellegrini sono infatti in prevalenza di età adulta, professionalmente attivi, e dotati di livelli di istruzione più elevati della media. Tra di essi sono cioè ben rappresentati quei settori della popolazione che in chiesa invece tendono a scarseggiare. La metà di loro, non a caso, ha dichiarato di non avere una pratica assidua. Già sulla base di questi semplici dati gli stereotipi della religiosità popolare vacillano. Noi non abbiamo qui un popolo di illetterati, «bigotti», anziani, malati, soli, piegati dalle disgrazie della vita; abbiamo uno spaccato della popolazione adulta attiva. Difficile pensare che siano andati dal santo con l'atteggiamento dolente e implorante di chi pensa sia l'ultima spiaggia. La grandissima maggioranza, d'altra parte, non era nemmeno lì per caso, o perché attratta dalla prospettiva del grande evento. Quattro su cinque erano almeno alla terza visita, e solo uno su dieci ha affermato di non pregarlo mai.
Lo stereotipo della religiosità popolare vorrebbe che essi fossero lì per chiedere qualcosa di determinato, una grazia particolare, forse un «miracolo». Ma da un popolo come quello descritto è difficile pensare provengano richieste di questo genere. La compostezza, il raccoglimento, ma anche la serenità osservabili nelle persone avviate in lunghe file verso la basilica, indirizzano altrove. La metà dei pellegrini pare essere venuta a trovare il santo non per chiedere qualcosa, ma per riconoscere una relazione, per rinnovare un rapporto con lui, qualcosa che si traduce in una devozione e in un bisogno di ringraziamento. In un'altra metà c'è un'aspettativa, una speranza, una domanda, è vero. Ma solamente per un pellegrino su dieci questa è richiesta impellente di un aiuto specifico. I rimanenti non erano lì per qualcosa che li angustiava particolarmente; più semplicemente avvertivano l'esigenza di un sostegno per la vita di ogni giorno. In un certo senso è il pellegrinaggio, con la sospensione dei ritmi normali di vita che implica e la possibilità di raccoglimento che offre, a venire considerato in se stesso un'occasione per ritrovarsi e dunque per aprirsi a quel sostegno di cui si avverte il desiderio.
Ciò che si può dire infine di queste persone è che esse compongono un popolo ancora capace di credere con semplicità. Ben l'83% dei pellegrini sostiene di credere senza incertezze nella risurrezione, una percentuale ben più elevata che non nella popolazione e maggiore anche di quella che si riscontra tra i praticanti. E lo si vede anche nel modo in cui pensano il santo. Per la maggioranza di loro Antonio non è solo un uomo grande e nobile del passato; egli è presente, oggi, qui, ed è una presenza attiva; non è solo «quelle povere ossa», egli è un vivente. (alessandro castegnaro)

(©L'Osservatore Romano 8 maggio 2011)

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