Verità e libertà
Le ragioni della Chiesa sull'amore coniugale
di Carlo Caffarra*
Vista dal di fuori, la vetrata artistica di una chiesa appare priva di fascino e di bellezza. Se poi si entra all'interno dell'edificio sacro, la vetrata, soprattutto quando è illuminata dal sole, mostra tutto il suo splendore. Allo stesso modo, la dottrina della Chiesa sull'amore coniugale, vista «dal di fuori» rischia di essere ridotta a una serie di divieti, non solo impraticabili ma addirittura inconcepibili per l'uomo immerso nella cultura post-moderna. Ciò che, quindi, mi propongo in questo articolo è aiutare chi legge, credente o non, a considerare «dal di dentro» la dottrina della Chiesa.
Voglio però anzitutto spiegare che cosa si intende con le metafore «dal di fuori» e «dal di dentro». Esse, in sostanza, denotano rispettivamente l'incomprensione e la comprensione del lògos, cioè della logica che governa l'intero discorso ecclesiologico sull'amore coniugale, e ne tiene assieme, secondo un ordine gerarchico, le singole parti. Estrarre una proposizione -- come per esempio una particolare norma morale negativa -- dall'insieme logico di tutta la proposta, significa mettersi nella condizione di non capire.
Vorrei dunque aiutare chi legge a raggiungere questa semplice visione d'insieme. Occorre però fare una premessa di grande importanza teoretica per tutta la riflessione successiva. Una premessa che costituisce la chiave interpretativa di tutto. Essa riguarda il rapporto tra verità, bene e norma morale.
La norma morale esprime il potere obbligante della verità a riguardo del bene della persona, operabile dalla libertà. Cercherò di spiegare questa affermazione, che potrebbe ritenersi una descrizione sintetica dell'esperienza etica.
Ovviamente parliamo dell'atto libero di una persona, o -- ed è equivalente -- del bene operabile dalla libertà. Ora, ciò che discrimina un atto libero, più concretamente una scelta libera, da un atto spontaneo, è che la persona è mossa ad agire in quanto giudica che la scelta progettata sia buona. È il giudizio razionale circa la verità del bene che voglio compiere, la necessaria condizione della libertà della scelta. La conferma di questa affermazione è il fatto che da sempre gli uomini hanno discusso su ciò che è bene o male, giusto o ingiusto. Il fatto è spiegabile solo se si ammette che esistono ragioni universalmente condivisibili, condivisibili da ogni soggetto ragionevole, circa ciò che è bene o male; solo cioè se si ammette che esiste una verità trascendente e allo stesso tempo immanente a ogni persona che partecipa alla discussione. Da questo deriva che l'autodeterminazione della persona -- nel senso più forte del termine: dipendenza da se stessa -- è condizionata dalla dipendenza (e conoscenza) della verità circa il bene. «Dipendere dalla verità» e «dipendere da se stesso», dunque, stanno o cadono insieme.
«La libertà -- ha scritto Karol Wojtyła in Persona e atto -- racchiude in sé la dipendenza dalla verità, il che con tutta chiarezza risalta nella coscienza morale, la cui funzione consiste nel definire il vero bene nell'atto e nel formare il dovere rispondente a questo bene. Il dovere è la forma sperimentale della dipendenza dalla verità, cui è soggetta la libertà della persona». Questa interpretazione dell'esperienza etica viene minata alla radice se si afferma che la libertà è pura autodipendenza; che essa è il potere, assolutamente e incondizionatamente libero, di stabilire la verità circa il bene della persona. In base a questa affermazione le norme di comportamento non trovano altra ragione di essere che la libertà che le costituisce, dalla quale pertanto possono essere anche abrogate, non solo dal singolo ma anche dalla società che regolamenta le libertà dei singoli. Una persona o una società che concepisca e viva la sua libertà secondo questa visione, uccide l'etica. Ogni norma non può essere pensata che come insopportabile divieto alla libera espansione della libertà. Ross Poole ha ragione quando scrive: «Date le concezioni dell'agente umano e delle ragioni prevalenti nel mondo moderno, un individuo razionale respingerà le richieste della moralità» (citato in G. Abbà, Quale impostazione per la filosofia morale?, Roma, Las, 1996, p. 265).
È dentro questo contesto che la Chiesa parla dell'amore coniugale. È necessario, per comprendere ciò che la Chiesa dice, uscire dalla concezione dell'autonomia come autodipendenza pura e porsi all'interno di una visione dell'uomo secondo la quale la volontà libera è naturalmente incline a un bene che trascende l'uomo stesso. La metafora della vetrata di una chiesa aveva questo significato.
Ma come una persona può compiere questo passaggio? Non c'è che un modo: che essa ritorni a se stessa; ponendosi con se stessa in un contatto conoscitivo diretto. E verificando alla luce di questo rapporto le diverse opinioni. Il magistero della Chiesa sull'amore coniugale è in primo luogo, ma non soltanto, il pedagogo che guida a questa scoperta.
La Chiesa cattolica ha la consapevolezza che l'amore coniugale è un bene umano preziosissimo, in quanto forma della realizzazione dell'humanum. E questo per un duplice ordine di ragioni.
L'humanum è duale, originariamente. Esso, infatti, si dà o nella forma della mascolinità o nella forma della femminilità. Nessuna delle due forme, presa separatamente dall'altra, è tutto l'humanum. Esse sono irriducibili l'una all'altra.
Ma la loro irriducibilità, rivelazione nel piano corporale della loro irriducibilità in quanto persone, è la base della loro mutualità. La pienezza dell'humanum può aversi solo nella loro unità. L'irriducibilità-reciprocità delle due forme dell'humanum viene integrata nell'amore coniugale.
È necessario però richiamare un punto centrale del «sì» della Chiesa all'amore coniugale. Quando essa parla di amore coniugale che integra l'irriducibilità-reciprocità di mascolinità e femminilità non parla di un trasporto psicologico o della mera spontaneità sessuale o della consegna di sé a una legge biologica. Essa parla di una «forma» di vita. La necessaria traduzione giuridica nella categoria dell'«istituzione» non ne coglie tutta la grandezza.
L'amore coniugale non è informe e indifferente, neutrale nei confronti di ogni determinazione. È in fondo il sigillo del Dio che ha creato l'uomo; il sigillo impresso nella forma maschile e femminile. Non posso esimermi dal citare a questo punto un testo di von Balthasar: «Ma a che cosa si riduce l'individuo che, disprezzando e travolgendo questa forma, stringe rapporti che restano prigionieri delle limitazioni della sua psicologia? A nient'altro che a sabbia mobile e infecondità inevitabile. Anche questa forma, da cui è generata la bellezza dell'esistenza umana, è oggi più che mai affidata alla vigilanza cristiana» (Hans Urs von Balthasar, Gloria, i, Milano, Jaca Book, 1971, p. 19).
La Chiesa è consapevole della preziosità di questo bene. Nell'intelligenza che ne ha non può non vedere per contrarium anche ciò che lo consuma o lo dilapida. Nella forma coniugale di vita la Chiesa percepisce il bene dell'uomo e della donna nella loro irriducibile reciprocità. Il no è la conseguenza del sì: inevitabile, grande tanto più quanto più è grande il sì. Ma per capire una realtà non ci si deve limitare a guardare la sua possibile corruzione. Nessuno può vedere la bellezza delle vetrate di Chartres se non entra nella cattedrale.
Ma c'è qualcosa di molto più grande nella cura che la Chiesa ha della forma coniugale dell'esistenza, più grande della «bellezza dell'esistenza umana generata da quella forma».
La forma coniugale è la forma visibile del Mistero. È in essa che il Mistero si manifesta e si «dice» quotidianamente, come l'apostolo Paolo Insegna (Efesini, 5, 25-31). Non si capisce sino in fondo la cura della Chiesa per il matrimonio, se non si giunge a questa visione di fede.
Il Mistero di cui parlo è il Cristo nella sua unione con la Chiesa: il Christus totus; Cristo e la Chiesa suo corpo e sua sposa. Non si tratta di una mera somiglianza estrinseca, ma di una vera e propria presenza del Mistero dentro la forma coniugale dei due battezzati.
In questa prospettiva si comprende l'importanza che la Chiesa annette alla custodia della verità del matrimonio. Se la realtà creaturale del matrimonio è costituita dalle due forme dell'humanum, dalla loro irriducibilità, unità e fecondità, il suo archetipo è la relazione tra Cristo e la Chiesa.
Nell'esposizione ho distinto la radicazione antropologica dalla radicazione teologica della dottrina della Chiesa. Nella realtà storica il Mistero è ciò che dà consistenza piena alla forma coniugale. La via che la Chiesa percorre quando vuole incontrare gli sposi è l'uomo e la donna, perché la sua via è Cristo. «Al “no” che affligge e invade il mondo, contrappone questo vivente “sì” (che è Cristo stesso, 2 Corinzi, 1, 19; Atti degli apostoli, 3, 14), difendendo in tal modo l'uomo e il mondo da quanti insidiano e mortificano la vita» (Giovanni Paolo II, Familiaris consortio, 30).
Come rendere pensabile l'inconcepibile? La sfida cui oggi in Occidente deve fare fronte la dottrina cristiana del matrimonio è questa. Non è più semplicemente come rendere praticabile ciò che è arduo praticare. Mi limito a due risposte telegrafiche. È un compito educativo: l'uomo ha perduto (il contatto con) se stesso. Ha bisogno di essere reintrodotto nella realtà. Il compito educativo comporta una grave fatica del pensiero: forse noi pastori non abbiamo preso sul serio come meritava la proposta antropologica della modernità. Ma soprattutto il compito educativo comporta una cura amorosa delle giovani generazioni. Tuttavia, la verità circa il bene della coniugalità è custodita soprattutto dagli sposi che la vivono quotidianamente. È lo «scandalo» del loro stile di vita che potrà risvegliare dall'allucinazione di una libertà impazzita.
*Cardinale arcivescovo metropolita di Bologna
(©L'Osservatore Romano 19 maggio 2011)
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