Dalla Giornata mondiale della gioventù e dal Congresso eucaristico nazionale italiano la conferma di una profezia fallita
La famiglia non è morta
Quarant'anni fa lo psichiatra inglese David Cooper pubblicava il saggio «The Death of Family»
di Andrea Possieri
Domenica, ad Ancona, Benedetto XVI concluderà il XXV Congresso eucaristico nazionale incontrando prima gli sposi e i sacerdoti presso la cattedrale di San Ciriaco e poi i giovani fidanzati in piazza del Plebiscito. Un ideale passaggio di consegne tra la Giornata mondiale della gioventù di Madrid e l'Incontro mondiale per le famiglie che si terrà a Milano nel maggio 2012. Tre momenti importanti per la Chiesa con ripercussioni profonde che vanno ben oltre la vita dei cattolici, ma che riguardano tutti senza distinzione di fede o credo politico: i giovani e gli adulti, i figli e i genitori, in una parola, la famiglia.
Che si voglia o no, al di là di una retorica a volte un po' leziosa e stereotipata e ben oltre le innumerevoli analisi statistico-quantitative che da decenni ormai fotografano la famiglia, una riflessione su quella che fino a pochi decenni fa veniva considerata dalla stragrande maggioranza delle persone come la cellula fondamentale della società risulta quanto mai importante. Soprattutto in riferimento agli eccezionali mutamenti che sono intervenuti, seppur in modi e latitudini differenti, nelle società occidentali negli ultimi decenni.
Mutamenti profondi nel costume e nello stile di vita, nella morale e nell'ethos pubblico, nel modo di stare nel mondo e di rapportarsi con esso. Mutamenti che hanno investito la sfera antropologica e che si sono affermati, non casualmente, a cavallo tra il decennio degli anni Sessanta e quello successivo, nello stesso momento in cui emergeva, in tutto il mondo, un movimento di giovani istruiti, borghesi e inurbati, che si faceva portavoce, al di là della patina pan-politicista e dell'aspetto ideologico neomarxista o ribellistico-sovversivo, di istanze anti-gerarchiche, anti-istituzionali e libertarie.
Ciò che si afferma in quella stagione, è la lotta dei figli contro i padri, delle figlie contro le madri, dei giovani contro i vecchi. In quel particolare tornante storico, prende corpo, intellettualmente e concretamente, una critica serratissima nei confronti della famiglia che non viene più intesa come il fondamento della società ma, all'opposto, come il luogo d'origine di ogni autoritarismo, come la fonte di ogni alienazione, come l'istituzione tesa alla normalizzazione dei comportamenti dell'individuo.
E proprio quarant'anni fa, nel 1971, tra la miriade di libri e pamphlet prodotti della cultura della contestazione, in Gran Bretagna veniva pubblicato un volume dal titolo fortemente evocativo, The Death of Family, scritto dallo psichiatra David Cooper, uno dei pionieri dell'anti-psichiatria e della controcultura giovanilistico-rivoluzionaria di marca sessantottina. Subito tradotto anche in Italia da Einaudi (e tutt'ora in catalogo nella collana «Gli Struzzi») La morte della famiglia sintetizza un humus culturale e un sentire dell'epoca che è poi diventato, attraverso sentieri spesso contrapposti a quelli originari, un senso comune condiviso e anche un modus vivendi diffuso.
Cooper sostiene che la famiglia svolge un ruolo fondamentale nell'inculcare «la base del conformismo, cioè la normalità, tramite la primaria socializzazione del bambino» e, in definitiva, finisce per limitare la stessa identità dell'individuo perché lo sottomette al primato dell'istituzione imprimendogli un radicato sistema di tabù, vincoli e costumi necessari alla sopravvivenza della famiglia stessa. Queste strutture alienanti della famiglia vengono poi riprodotte dappertutto -- in ufficio, a scuola, nel partito, nell'esercito, negli ospedali. Solo la pazzia o la rivolta consentono di sfuggirvi.
A distanza di quarant'anni da quelle teorizzazioni, si può affermare, senza timore di essere smentiti, che la famiglia non è morta come aveva profetizzato Cooper. Altrettanto certamente, però, non si può non riconoscere che proprio a partire da quel contesto storico, la famiglia ha perso progressivamente quella centralità nel discorso pubblico che per decenni nessuna cultura politica europea -- ad esclusione di quella radicale -- aveva osato intaccare. Si pensi, a esempio, alla retorica sulla famiglia utilizzata da quasi tutti i partiti politici in Italia, a partire dal Pci, almeno fino alla fine degli anni Sessanta. Oppure, si faccia riferimento a una delle ultime grandi manifestazioni dell'Unione donne italiane prima dell'avvento del femminismo, che proprio nel 1971 organizzò un corteo di quindicimila donne che sfilarono con le carrozzine e i figli per le vie di Roma chiedendo l'istituzione degli asili nido.
Quel volume di Cooper, dunque, anche al di là della sua effettiva diffusione e comprensione, è importante per almeno tre motivi. Primo, perché nonostante contenga innumerevoli cadute ideologiche assolutamente risibili -- ad esempio gli osanna a Castro e Mao, i quali secondo Cooper avrebbero guidato «la nazione quasi rifiutando di essere dei leader» cosicché «la mente di milioni di individui si ravviva con le loro proprie qualità di leadership» -- viene considerato ancora un classico della letteratura psichiatrica sulla famiglia.
Quindi, perché legandosi a una lunga e antica tradizione intellettuale di critica alla famiglia -- a partire dalle elaborazioni ottocentesche di Lewis Henry Morgan e di Friederich Engels fino a quelle primo novecentesche della Scuola di Francoforte -- rappresenta il momento estremo di una critica radicale alla famiglia che, se fino allora era stata appannaggio dei colti e di ristrette minoranze intellettuali, da quel particolare momento storico emerge vigorosamente come un diffuso pensiero di massa caratterizzato da una moltitudine di pubblicazioni e di film. Dalle riflessioni filosofiche di Marcuse su L'autorità e la famiglia a quelle psichiatriche di Ronald David Laing sull'Io diviso o di Morton Schatzmann su La famiglia che uccide fino al film di Ken Loach, Family Life, che esce proprio nel 1971 e che rappresenta, forse, una delle più riuscite rappresentazioni cinematografiche della famiglia borghese, autoritaria e repressiva.
Infine, il volume di Cooper, se considerato come una sintesi simbolico-culturale di un'epoca, segna anche una netta cesura storica tra il discorso pubblico sulla famiglia elaborato della Chiesa cattolica e la sua ricezione nella secolarizzata società di massa. Da questo momento in poi, infatti, la rappresentazione sociale della famiglia subisce una divaricazione fondamentale. Da un lato, si afferma una visione del mondo che, in nome della necessaria rottura dei vincoli che minano la libertà dell'agire e l'autodeterminazione, rappresenta la famiglia come il luogo dell'arbitrio, del conformismo e della repressione. Dall'altro lato, si contrappone, ma con scarso appeal mediatico, la tradizionale affermazione della famiglia, «santificata dal cristianesimo», come cellula fondamentale della società in cui si afferma l'amore e la solidarietà tra le differenti generazioni che la compongono. Due visioni contrapposte che finiscono per essere rappresentate l'una come progressista e dispensatrice di libertà, l'altra come inevitabilmente conservatrice e reazionaria.
Questo schema dualistico si afferma nonostante le moltissime parole -- queste sì autenticamente profetiche -- utilizzate proprio in quegli anni da Paolo VI in difesa del «ruolo primordiale» della famiglia «naturale, monogamica e stabile». Un ruolo, affermò nella Populorum progressio del 1967, che nel corso della storia, «ha potuto anche essere eccessivo, quando si è esercitato a scapito di libertà fondamentali della persona» ma di cui non si può disconoscere la centralità «nel disegno divino» e il suo essere alla base della società.
Papa Montini, inoltre, non solo riaffermò, a più riprese, quella definizione di famiglia come «Chiesa domestica» sancita dal concilio Vaticano II, ma nell'esortazione apostolica Evangelii nuntiandi del 1975 le assegnò addirittura una missione altissima quanto mai attuale, oggi, in tempo di nuova evangelizzazione. La famiglia, scrive Paolo VI, è chiamata a «un'azione evangelizzatrice» all'interno della quale «tutti i componenti evangelizzano e sono evangelizzati. I genitori non soltanto comunicano ai figli il Vangelo, ma possono ricevere da loro lo stesso Vangelo profondamente vissuto. E una simile famiglia diventa evangelizzatrice di molte altre famiglie e dell'ambiente nel quale è inserita». Queste parole che richiamano l'amore sponsale tra la coppia e tra i genitori e i figli hanno ispirato, nel corso degli anni, la vita di moltissime nuove famiglie.
Eppure, nonostante ciò, da decenni si discute della crisi della famiglia tradizionale. Che cosa è accaduto in questo periodo? Forse sarebbe auspicabile che una riflessione su queste dinamiche storico-culturali, solo appena tratteggiate, entrasse a far parte, in una qualche misura, del grande impegno di elaborazione e partecipazione che si svolgerà in tutte le diocesi nei prossimi mesi in vista dell'incontro di Milano.
(©L'Osservatore Romano 10 settembre 2011)
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