Il compito educativo, l'insidia del relativismo
Verità e progetto per fare spazio a «qualcuno»
Giacomo Samek Lodovici
Nell’imminenza dell’avvio del nuovo anno scolastico, un recente e prezioso discorso del cardinal Caffarra agli insegnanti offre alcune coordinate decisive per restituire ai docenti, soffocati dalla burocrazia, sottopagati e (a volte) anche annoiati dalla routine, la consapevolezza «di una dignità e di una missione che hanno e che nessuno può e deve loro togliere». È un tema che sta molto a cuore ai vescovi italiani, che in varie occasioni hanno speso parole profonde.
Insegnare – ha ricordato l’arcivescovo di Bologna – non vuol dire solo trasmettere nozioni e tecniche, che pur sono importanti, bensì «equipaggiare una persona di tutto ciò che serve per vivere una vita buona e felice e per convivere»: vuol dire educare. E ciò significa aiutare le famiglie (che oggi ne hanno tremendamente bisogno) a «trasmettere un progetto di vita, ritenuto veramente buono», nonché prodigarsi affinché l’allievo «diventi anche qualcuno». Educare significa non già conculcare, bensì proporre (anche in riferimento ai valori fondativi del nostro popolo) un modo di vivere in cui la dignità umana risplenda e fruttifichi.
Chiaramente una simile concezione dell’insegnante-educatore si scontra con il relativismo, con lo scetticismo, con la negazione assoluta della conoscibilità della verità. Bisogna allora promuovere nell’allievo l’amore verso la verità e verso il bene, e prima ancora la fiducia nella capacità veritativa della ragione, per esempio ripercorrendo con lui quegli argomenti che (da Platone in poi) hanno riconfermato la capacità umana di conoscere (almeno in parte) la verità e di intraprendere la ricerca di un progetto di vita veramente buona, che indichi l’autorealizzazione della persona, conforme a ciascuno.
Dicevamo che non si deve "conculcare" nulla: bisogna piuttosto mostrare in modo maieutico lo splendore della verità e del bene. È irrinunciabile promuovere lo sviluppo del senso critico dell’allievo, in modo che egli possa analizzare quanto ascolta, per fare propri i concetti e i principi che apprende o, se del caso, per rifiutarli, compresi quelli del docente. Bisogna promuovere il senso critico perché questo consente di accedere alla verità, la quale è la condizione di possibilità per essere liberi.
Infatti, dice Caffarra, il docente che non indica un ideale di vita, una terra promessa da raggiungere, abbandona la persona che gli viene affidata «in una sorta di "terra di nessuno" (le leggi bronzee dell’economia, la volontà di potenza, il regno dell’Es e della libido)»: di fatto lascia l’allievo in balia di pulsioni che potrebbero squassarlo e di forze – i mass media, le lobby, i potentati finanziari, ecc. – che vogliono ghermire e manovrare il suo io.
Una tale missione dell’educatore richiede non solo competenza, onestà ed equilibro, ma anche testimonianza, coerenza tra il bene che si addita e la vita che si conduce. Essa è tanto più efficace «se il "qualcuno"» che si propone di diventare all’allievo «è incarnato, ha preso corpo nell’educatore e in modo affascinante». In effetti, la grande tradizione occidentale, ma anche orientale, della virtù da sempre rimarca come imprescindibile l’esistenza di "testimonial" che irraggino la bellezza della vita buona.
Alla base di tutto – come ha detto Caffarra – il docente deve amare l’allievo. Amare non vuol dire provare simpatia (che nei riguardi di certi studenti è molta ardua), né essere indulgenti, bensì desiderare e cercare il vero bene altrui: «L’amore fa guardare l’altro come unico […]: l’educazione, come diceva don Bosco, è un affare del cuore». In sintesi, «l’educatore ha la responsabilità della nascita di un io veramente libero e liberamente vero, della custodia della verità circa il bene della persona, della testimonianza alla verità circa il bene dell’uomo».
© Copyright Avvenire, 6 settembre 2011 consultabile online anche qui.
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