venerdì 11 novembre 2011

Tra Chiesa e media cinque errori da evitare e cinque regole per incontrarsi. Bisogna sapere essere antichi e moderni (Galeotti)

Tra Chiesa e media cinque errori da evitare e cinque regole per incontrarsi

Bisogna sapere essere antichi e moderni
Tutte le «spine» più rilevanti della comunicazione tra la stampa mondiale e Benedetto XVI


Giulia Galeotti

«La questione della comunicazione, e dei suoi imbarazzi ed equivoci, non è questione di oggi, ma risale all’epistolario paolino.
Riferendosi a precomprensioni, incomprensioni e misunderstandings, Paolo utilizza addirittura il verbo “adulterare” (kapelèuein), verbo che attesta inequivocabilmente il dato di fatto: il tema capitale — su cui la giornata odierna di studio ha puntato l’attenzione con grande libertà — era presente già a quel tempo». Così il cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del Pontifico Consiglio della Cultura, con l’intelligenza, la cultura, l’equilibrio e la profondità che gli sono propri, ha concluso l’incontro «Incomprensioni. Chiesa cattolica e media», organizzato dal nostro giornale e tenutosi giovedì 10 ottobre nell’Aula vecchia del Sinodo in Vaticano.
Il porporato ha quindi fatto un’aggiunta preziosa e sostanziale: «Paolo, però, non si limitava a difendersi. Paolo reagiva, trovava e inoculava vaccini». Poche parole per cogliere appieno il senso, gli intenti e l’eredità di un convegno che, per diversi aspetti, lascerà decisamente il segno.
Con gli interventi dei vaticanisti di alcune tra le principali testate occidentali, una dopo l’altra le «spine» — così le ha definite il nostro direttore — più rilevanti della comunicazione tra la stampa mondiale e Benedetto XVI, sono state tutte sgranate. Con attenzione quasi filologica, raffinata acutezza e nella più completa assenza di timori reverenziali, molto (se non tutto) è stato passato al setaccio.
Sono stati analizzati i grossolani errori compiuti negli anni dai media, dovuti a superficialità, sciatteria, incompetenza e all’ossessione di trovare «pagliuzze d’oro». Ad esempio, Antonio Pelayo — che, tra gli altri suoi ruoli, è vaticanista della spagnola «Antena 3 Tv» — ha indagato ciò che accadde con il discorso di Ratisbona, dopo che alle 6 di mattina del 12 settembre 2006 fu consegnato ai giornalisti il testo Fede, ragione e università. Ricordi e riflessioni, ovvero le oltre tremiladuecento parole che diedero via a uno dei più duri attacchi mediatici al pontificato di Joseph Ratzinger.
Alcuni giornalisti trovarono subito «nelle parole del Paleologo la pepita con cui arricchire la loro cronaca».
Ebbene, «dopo aver compiuto i dovuti accertamenti in questi anni», Pelayo ha potuto concludere che «sono stati i titoli della stampa italiana a diffondere l’allarme nei Paesi musulmani attraverso le loro ambasciate a Roma e i pochi corrispondenti di quell’area che lavorano nella capitale italiana. Né le une né gli altri avevano letto il testo integrale del discorso ma non persero tempo, dopo aver sfogliato i giornali italiani del 13 settembre 2006, a informare i loro Governi e il loro pubblico sull’“attacco del Papa all’islam”».
Ma il discorso vale anche per altri casi.
Vale per la «tempesta perfetta» dello scandalo degli abusi sessuali negli Stati Uniti, analizzata da John L. Allen Jr., vaticanista del «National Catholic Reporter» (fisicamente assente, è stato letto il suo contributo). E vale per il «putiferio» legato alle parole sul condom che il Papa pronunciò il 17 marzo 2009 mentre era in volo verso l’Africa. Come emerso dalla relazione del vaticanista di «The Guardian», John Hooper, in questo caso, addirittura, gli errori dei giornalisti indussero in errore anche diversi politici e i vertici di importanti organismi internazionali (perfino «The Lancet» andò «troppo oltre»).
Esiste, dunque, il problema della preparazione dei vaticanisti e, più in generale, dei giornalisti che si occupano di questioni religiose. Esiste il problema del ruolo delle agenzie di stampa, della pigrizia di chi sta al desk, della approssimazione, della volatilità del piano mediatico, della minimizzazione dei successi e della massimizzazione delle mancanze. John Allen ha parlato di «mitologia, disinformazione e pregiudizio».
E ha denunciato «l’assenza di contesto»: le organizzazioni mediatiche «centrano il testo di una determinata storia, ma sbagliano il contesto» (per esempio nel 2002 la copertura mediatica della crisi statunitense sulla pedofilia lasciò in molti l’impressione che alla Chiesa non importasse nulla dei bambini).
Certo, errori sono stati compiuti anche dalla e nella stessa Chiesa, e questa ammissione è uno degli aspetti più interessanti della giornata (solo chi è forte nella verità, può ammettere i suoi errori).
Su tutti, «il disastro mediatico e di comunicazione» del caso Williamson, analizzato da Paul Badde di «Die Welt», in una relazione a tratti «metastorica», ha detto Giovanni Maria Vian. Si è trattato di un caso unico anche perché — con la lettera del 10 marzo 2009 («uno dei documenti più commoventi dell’attuale pontificato» secondo Badde) — il Papa «si assunse personalmente la responsabilità del disastro, difese i suoi collaboratori e pose fine a ogni speculazione».
A volte, del resto, le risposte della Chiesa sono risultate controproducenti.
E John Allen, sempre riguardo allo scandalo americano, è stato lucido nell’analizzare la «copertura mediatica che, pur preziosa nel costringere la Chiesa ad ammettere la crisi e ad agire, talvolta è stata non equilibrata, inaccurata e distruttiva. Mentre alcuni hanno compiuto sforzi eroici per dare una risposta onesta e completa, troppo spesso la reazione è stata difensiva e tardiva, cementando il pregiudizio popolare nei confronti della Chiesa invece di correggerlo».
Anche perché — paradosso dei paradossi — Benedetto XVI, «il grande riformatore per quanto riguarda la crisi degli abusi sessuali» che ha fatto «del recupero spirituale e strutturale un segno distintivo del proprio pontificato», è divenuto per l’opinione pubblica male informata «il simbolo principale dell’incapacità della Chiesa, arrivando, nei casi estremi, a chiedere che si dimetta o che subisca un processo penale dinanzi a tribunali internazionali». Del resto, la sfida è a tutto campo: «In gioco non v’è solo l’immagine della Chiesa, ma anche quella della stampa».
Nella sua analisi, invece, Jean-Marie Guénois di «Le Figaro», partendo dal lato tedesco di Benedetto XVI — connotazione tutt’altro che geografica, ma preciso punto di attacco di cui si sono avvalsi i media — ha ricostruito come il Pontefice tedesco, amediatico e già prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede («una sorta di reazione chimica esplosiva») succeduto «al Papa super mediatico», sia riuscito lentamente nel corso degli anni a ribaltare le cose. Grazie alla sua timidezza e la sua umiltà, grazie alla sua lucidità intellettuale, alla costanza nell’obiettivo, alla capacità di distinguere l’essenziale dal particolare e al suo cancellarsi individualmente per servire il bene comune.
Il «fragile timoniere» ha affrontato l’incubo mediatico della crisi della pedofilia ottenendo rispetto proprio per il modo in cui ha affrontato quella crisi. «Non agitandosi attraverso grandi dichiarazioni, ma con una gestione molto pacata, lenta e alla fine efficace». Benedetto XVI, «il Papa tedesco, ne è uscito più grande poiché occorreva una grande forza interiore per attraversare questa gigantesca tempesta» ha concluso Jean-Marie Guénois.
Sulla scia di quanto già emerso nella mattina di giovedì dalle relazioni propriamente storiche, si è visto comunque come alla base di tutto vi sia la centralissima e sempre attuale questione del rapporto tra la Chiesa e le logiche del tempo attuale. Netta e sostanziale è, infatti, la divaricazione tra lo sguardo profetico dell’una e lo spirito contingente dell’altro.
È emersa anche l’inadeguatezza vaticana sul fronte informatico. Paul Badde ha ricordato le parole di Benedetto XVI: «Mi è stato detto che seguire con attenzione le notizie raggiungibili mediante internet avrebbe dato la possibilità di venir tempestivamente a conoscenza del problema. Ne traggo la lezione che in futuro nella Santa Sede dovremo prestar più attenzione a quella fonte di notizie». È risultato, però, anche il salto «quantico» compiuto dalla struttura millenaria, «catapultata nell’era di internet» (sono sempre parole del vaticanista della «Die Welt»).
Misure per superare le incomprensioni reciproche sono dunque enucleabili. Se v’è tanto da fare sul versante mediatico, indicazioni concrete spettano anche alla Chiesa. La nuova evangelizzazione voluta da Benedetto XVI può risolvere anche questo ostacolo. «Se esistono dei passi che la Chiesa può compiere senza tradire la propria identità o adottare tecniche ciniche di manipolazione per promuovere una migliore comprensione — ha detto John Allen — allora farlo non è soltanto una bella idea. È un imperativo morale».
Anche qui il cardinale Ravasi è stato lucido e prezioso. La sua indicazione, infatti, è stata quella di cercare di trasformare i cinque vizi dei media, i cinque errori regolarmente compiuti dai giornalisti (legge della banalizzazione, dell’immediato, del piccante, dell’approssimazione e del pregiudizio) in virtù per la comunicazione della Chiesa. Imparare l’essenzialità; imparare a essere nel quotidiano («la predicazione di Cristo parte dai piedi»); imparare l’incisività; imparare a superare l’autoreferenzialità; evitare di lasciare spazi in bianco. Perché la comunicazione non può essere meramente auto-difensiva «per principio», ma deve necessariamente avere «una certa consistenza». Mantenendo forte la sua identità (c’è dialettica solo se si mantiene «lo scandalo del messaggio» ha ribadito Ravasi), la Chiesa deve però tener conto del fatto che «l’atmosfera, l’aria» in cui si muove l’uomo è cambiata (e per questo è cambiato l’uomo, e ne è stato rimodellato il volto).
Nel 1950 — lo ha ricordato il nostro direttore in apertura dei lavori — Montini, durante il primo incontro con Jean Guitton, confidò una preoccupazione capitale: «Bisogna sapere essere antichi e moderni, parlare secondo la tradizione ma anche conformemente alla nostra sensibilità. Cosa serve dire quello che è vero, se gli uomini del nostro tempo non ci capiscono?».

(©L'Osservatore Romano 12 novembre 2011)

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