Su segnalazione della nostra Laura leggiamo:
Conversazioni sul fine vita
Se un tabù diventa occasione di conoscenza
SILVIA GUIDI
"Mia cara signorina Eva, sei venuta a tentare tuo padre un'altra volta?". Thomas More si sta rivolgendo all'amatissima figlia che è venuta a trovarlo in prigione: la ragazza con la voce rotta dall'ansia seduta di fronte a lui in realtà si chiama Margaret, ma è una nuova Eva per suo padre perché rappresenta la tentazione più sottile e tenace, quella degli affetti familiari.
Un episodio della vita del martire inglese che fornisce a Russell Shaw, in un testo pubblicato in rete (www.catholicity.com), lo spunto per un'inedita analisi di cosa significa davvero prudenza cristiana; davanti alla muta accusa dello sguardo di una figlia che implicitamente chiede al padre "perché ci stai facendo questo?" o gli rinfaccia "le assurde pretese del tuo Dio" emerge per il brillante, amabile cancelliere del re d'Inghilterra la vera posta in gioco.
More sa bene che prudenza cristiana non significa tanto amore del quieto vivere quanto capacità di discernimento; la consapevolezza di essere mortali è un antidoto potente contro la dimenticanza del limite e l'idolatria del "qui e ora" svincolato dal contesto storico e personale in cui si vive.
Margaret - scrive Shaw - è una Cordelia alla rovescia; la figlia più giovane di re Lear perde l'amore del padre perché non accetta di trasformare il suo affetto in una parodia dell'adulazione a uso e consumo della corte, mentre la figlia maggiore di More vuole salvare a tutti i costi suo padre, convincendolo a rinunciare a quello che ha di più caro, il suo irriducibile amore per Dio, che lo rende pieno di gratitudine e capace di prendersi gioco con malinconica ironia anche del male più turpe ("è già un pessimo affare perdere la propria anima per il mondo intero, figuriamoci per la Cornovaglia" chiosa commentando il tradimento di un amico; "se è per questo io e vostra grazia condividiamo un destino non troppo dissimile - risponde a un altro che lo esorta a evitare il capestro a ogni costo - siamo tutti condannati a morte, è solo questione di tempo").
Il criterio da seguire, ripete il Lord cancelliere, è amare la verità più di se stessi, anche se è terribilmente scomoda: "La verità vi farà liberi" è un itinerario di conoscenza. Il valore conoscitivo, e non solo sentimentale o emotivo, della "categoria della mortalità" è il segreto del fascino di molte opere d'arte, persino di qualche inaspettato capolavoro di marketing contemporaneo.
È questa una delle leve del cambiamento di Scrooge, il protagonista di Canto di Natale (a questo prelude il celebre incipit, "Marley, prima di tutto, era morto. Nessun dubbio su questo", in cui la concretezza del finire delle cose assume un'evidenza ineludibile); è questo il tema dei Cafés mortels, le conversazioni sulla morte organizzate nei bistrot parigini dall'etnologo Bernard Crettaz, e di uno dei video più scaricati da Youtube, il commencement address di Steve Jobs che il fondatore della Apple ha pronunciato alla Stanford University nel 2005: ""Se oggi fosse l'ultimo giorno della mia vita, vorrei fare quello che sto per fare oggi?" Ogniqualvolta la risposta è "no" per troppi giorni di fila qualcosa deve essere cambiato (...) Mi dispiace essere così drammatico ma è la pura verità: non lasciate che il rumore delle opinioni altrui offuschi la vostra voce interiore".
Quando il rumore delle opinioni altrui è assordante, fatalmente vengono rimosse o trascurate le domande più interessanti sulla vita, scrive Maria Felice Pacitto in L'ingiustizia estrema, gli antemorti (Roma, Alpes, 2009) citando Lévinas; il filosofo francese, nelle ultime lezioni tenute alla Sorbona negli anni 1975-1976 descrive la morte come un fenomeno strutturalmente passivo, di una passività talmente radicale da risultare intollerabile, "non pensabile" per la mentalità contemporanea.
L'insofferenza verso la resa incondizionata a cui costringe il limitare della vita affiora anche dal lessico: il semplice verbo "è guarito" viene spesso sostituito da un più trionfalistico "ha sconfitto la malattia", "ha combattuto contro il suo male", o viceversa diciamo "non ce l'ha fatta" quando l'esito è infausto, lasciando intravedere un ultimo volontarismo anche all'interno di una comune condivisione del dolore. La "fretta di comprendere" ci spinge ad accusare noi stessi per la morte di una persona cara, trasformando il dolore in senso di colpa, o a rimuovere la ferita del distacco. Ma in entrambi i casi, censurando il luogo dove l'insondabilità della domanda sfiora "il mistero che dà fuoco e tensione a ogni nostra parola, urgenza a ogni problema" (Thomas Mann) si rischia di far ammalare, o condannare all'insignificanza, le potenzialità stesse della vita.
Secondo Maria Felice Pacittouna distorta elaborazione del luttotrasforma il dolore in senso di colpa
(©L'Osservatore Romano - 31 gennaio 01 febbraio 2011)
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