giovedì 27 gennaio 2011

E Leclercq «scoprì» san Bernardo. Il discorso di Benedetto XVI al Collège de Bernardins di Parigi (Filippo Rizzi)

Su segnalazione di Alice leggiamo:

E Leclercq «scoprì» san Bernardo

Filippo Rizzi

«Penso che non potrò ancora viaggiare, se non per il grande viaggio verso Dio. È il tempo di andare a vedere e vederlo. Che il Signore mi dia la forza mentre aspetto la fine». È una delle ultime lettere del monaco benedettino francese Jean Leclercq (1911-1993). Parole che, rilette oggi nel centenario della nascita (il prossimo 31 gennaio), hanno il sapore di un testamento quasi profetico, di un uomo di grande sapienza e distacco da tutto ciò che è mondano nello stile proprio di chi veste l’abito del monaco. Dom Leclercq è un personaggio che ha inciso moltissimo nella cultura cattolica del Novecento, soprattutto per aver regalato al pubblico degli studiosi saggi come Cultura umanistica e desiderio di Dio, (Sansoni 1965) e San Bernardo e lo spirito cisterciense (Qiqajon 1988), per finire con l’autobiografico Di grazia in grazia. Memorie (Jaca Book 1993).
Francese di origine, monaco benedettino dell’abbazia di Clervaux nel Lussemburgo, dopo il compimento degli studi teologici a Roma (Ateneo di Sant’Anselmo) e a Parigi (ove, tra gli altri ebbe come maestro il grande storico della filosofia medievale Étienne Gilson), dom Leclercq poté beneficiare negli anni della sua formazione di un duplice apporto: quello della tradizione benedettina (si pensi solo ai grandi monaci André Wilmart e Anselm Stolz) e quello della grande cultura cattolica francese. «Sarà proprio Gilson, autore de La teologia mistica di San Bernardo – rivela il teologo Inos Biffi – ad ispirare al giovane Leclercq la passione per la letteratura monastica medievale come campo di ricerca».
Ma agli occhi di Biffi il grande merito di Leclercq risiede proprio nell’aver realizzato la prima edizione critica dedicata al grande abate di Clairvaux, san Bernardo, e di aver dato attraverso i suoi studi una vera cittadinanza alla teologia monastica: «Grazie a lui e a Gilson c’è stata la riscoperta dei grandi teologi medievali non scolastici. Grazie alla sua penna sono emersi splendidi ritratti di figure, ad esempio, come Pietro di Celle, Giovanni di Fécamp o lo stesso Bernardo di Clairvaux».
L’attualità di Leclercq è stata messa in luce recentemente dallo stesso Benedetto XVI, che in molti interventi ha fatto riferimento agli scritti di questo monaco dai tratti eccezionali: solo per citarne uno su tutti, il discorso pronunciato il 12 settembre 2008 al Collège de Bernardins di Parigi: «In quel frangente – sottolinea il medievista Franco Cardini – il richiamo a Leclercq da parte di Ratzinger serviva ad esortare il Vecchio Continente a riappropriarsi delle sue radici cristiane in cui la ricerca di Dio e cultura della parola fanno tutt’uno, non solo nella teologia ma anche nell’elevazione spirituale.
E fondano la civiltà europea grazie soprattutto ai monasteri benedettini». Lo storico fiorentino tende a evidenziare il grande rigore scientifico di Leclercq, per il quale il mondo accademico dimostra un’ammirazione molto simile a quella riservata al domenicano Marie-Dominique Chenu: «È uno dei grandi nomi della cultura cattolica, come Henri de Lubac o Henri-Irénée Marrou. Storici del calibro di Claudio Leonardi o di scuola più laica come Girolamo Arialdi o Ovidio Capitani si sono inchinati di fronte al suo sapere, riconoscendone la grandezza e la serietà scientifica».
Non è un caso che ancora oggi colpisce l’epistolario del grande benedettino, dove egli si confronta anche su minuziose questioni teologiche o storiche con i grandi contemporanei: da Yves-Marie Congar a Jean Daniélou, Hans Urs von Balthasar, don Giuseppe de Luca e Thomas Merton (senza dimenticare le bellissime lettere intrise di notazioni geografiche alla cara mamma). Una particolare amicizia è quella instaurata col futuro cardinale gesuita de Lubac, che gli dedicherà il primo volume della celebre Exégèse médiévale e spronerà il benedettino a scrivere le sue memorie. «Il suo grande merito – argomenta il discepolo e curatore di molte sue opere, il benedettino sublacense <+nero>Gregorio Penco<+tondo> – è stato quello di indicare nella teologia monastica la diretta continuatrice ed erede della teologia patristica. Prima di lui tutta una tradizione culturale ispirata ai canoni dell’illuminismo aveva rigettato come insignificanti molti scritti di spiritualità monastica, che in seguito, grazie alla sua scrupolosa ricerca, sono apparsi una delle espressioni più alte di una civiltà posta al servizio della fede e della contemplazione di Dio».
Ad impressionare è anche la capacità di Leclercq come conferenziere e divulgatore del carisma benedettino tra i vari monasteri del Pianeta: «Fu definito non a caso "il monaco più viaggiatore della storia" – osserva dom Valerio Cattana già abate di Seregno e tra i curatori in Italia dell’opera omnia di Leclercq –. A chi gli obbiettava che caratteristica chiave del monaco benedettino era la stabilità in un luogo, egli replicava ironicamente di vivere questa virtù "a bordo di un aereo con la sua valigia"». Il monaco olivetano Cattana tende a mettere in luce aspetti meno conosciuti della sterminata bibliografia di Jean Leclercq: «A lui si deve una maggior conoscenza delle grandi figure del monachesimo italiano, si pensi solo a Pier Damiani o a san Romualdo.
Ma interessante è pure notare come egli stesso recepì il Concilio Vaticano II dal punto di vista liturgico; molto ricco il suo bellissimo ritratto su Paolo VI e il monachesimo». Un capitolo del tutto a se stante è l’amicizia intrattenuta col trappista autore del bestseller La Montagna dalle sette balze Thomas Merton.«Il grande monaco del Kentucky – rivela dom Cattana – ha avuto in Leclercq il punto di riferimento per le letture patristiche e medievali.
Essendo un autodidatta geniale, attingeva ai suggerimenti del suo amico benedettino di Clervaux come alla fonte più autorevole a cui abbeverarsi». Padre Penco, già docente di Storia del monachesimo al Sant’Anselmo a Roma, toglie dall’album dei ricordi un aspetto sconosciuto ai più: «Era fiero di essere stato il primo non gesuita a insegnare alla Gregoriana, "questa fortezza della Compagnia", amava ripetere. Ricordo anche come seppe reagire con ironia e spirito di fronte agli studenti comunisti della Normale di Pisa, che contestavano la sua conferenza, con un laconico ma fulminante commento:"Gioventù..."».
L’eredità di dom Leclercq è ancora viva alla luce soprattutto dei suoi studi su san Bernardo, ma anche della testimonianza indelebile e mai sgualcita di vita religiosa: «La sua ultima grande fatica – è la riflessione finale del teologo Inos Biffi – fu la sua presenza nel 1990 al centenario della nascita di Bernardo di Clairvaux. La sua presenza aveva il valore della testimonianza: ormai pensare a san Bernardo voleva dire pensare a Jean Leclercq... Superata la soglia degli 80 anni non poté più viaggiare, ma alla stregua degli antichi monaci continuò sino alla fine a studiare offrendo i suoi "sguardi" sulla contemplazione di Cristo nel monachesimo medievale. Il suo più grande pregio? Aver reso visibile il "mistero monastico"».

© Copyright Avvenire, 27 gennaio 2011 consultabile online anche qui.

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