Due forme del Messale, una sola liturgia
Una lezione di stile. Cattolico
Pierangelo Sequeri
Potrà un gesto di pacata saggezza magisteriale restituirci al senso della fede che ci è comune? E anche, se mi è consentito, ricondurci al senso delle proporzioni, nelle discussioni in materia di liturgia e tradizione?
L’Istruzione diffusa ieri dalla Pontificia Commissione Ecclesia Dei, puntualizza dettagliatamente, con toni fermi e sereni la questione relativa alla teoria e alla pratica della forma liturgica precedente, e costituisce ora, a questo scopo, un autorevolissimo punto di riferimento.
Nell’evidenza di un eccesso di drammatizzazione dell’adeguamento liturgico ufficiale, il Papa Benedetto XVI (come del resto già il beato Giovanni Paolo II) ha giustamente difeso, a più riprese, la sua piena legittimità: «Non c’è nessuna contraddizione tra l’una e l’altra edizione del Messale Romano. Nella storia della liturgia c’è crescita e progresso, ma nessuna rottura». Il giudizio, naturalmente, vale dai due lati. Non esiste alcuna ragione per qualificare pregiudizialmente come una deviazione il giusto adeguamento liturgico che la Chiesa autorevolmente procura alla tradizione vivente della fede (la liturgia sarà finalmente perfetta solo in cielo). Così come non esiste alcun motivo per lasciar intendere che un tale sviluppo comporti necessariamente una sorta di ripudio per ciò che nella tradizione liturgica è stato "sacro e grande". E tale rimane. La comprensione per la venerazione della forma precedente, e la regolata accoglienza del suo esercizio nella Chiesa odierna, confermano esattamente il principio ermeneutico confermato da Benedetto XVI.
L’effettiva percezione di una diffusa sensibilità, fra sacerdoti e fedeli, per il sostegno spirituale loro offerto dalla pratica dell’antico rito, lascia però intuire che quella sensibilità può essere gravemente manipolata (già è avvenuto, come si sa): persino in termini cattolicamente inaccettabili. Quella sensibilità, infatti, può essere pretestuosamente forzata a intendersi come baluardo della dottrina liturgica autentica contro una forma liturgica – di per sé altrettanto ufficiale e in continuità con la tradizione apostolica – che ne rappresenterebbe la corruzione e la distruzione. O peggio, la sua rivendicazione, in termini a sua volta materialmente esclusivi di ogni vitale adeguamento delle forme, potrebbe essere persino esaltata come simbolo per una linea di resistenza e di lotta al Magistero recente, che reagisce a un processo di generale corruzione della dottrina e della prassi della Chiesa cattolica. Corruzione alla quale gli stessi Sommi Pontefici non sarebbero in grado – o addirittura non avrebbero l’intenzione – di opporsi con la necessaria efficacia.
La continuità dell’affezione nei confronti di una forma rituale venerabile e sacra, che innumerevoli generazioni hanno abitato come espressione dell’immutabile tradizione apostolica, è dunque autorevolmente riconosciuta, in base a princìpi sempre condivisi e mai revocati in dubbio, come espressione legittima di una vera sensibilità cattolica. Il criterio ultimo della sua legittima "ospitalità ecclesiale", raccomandata al saggio discernimento dei vescovi, appare in tutta evidenza nel prologo del documento. Nulla deve ferire la concordia di ogni Chiesa particolare con la Chiesa universale: nella dottrina della fede, nei segni sacramentali, e «negli usi universalmente accettati dalla ininterrotta tradizione apostolica». Interesse rigorosamente comune e principio sicuro di pace ecclesiale.
Di qui in avanti, unire le forze per restituire alla liturgia l’incanto possente della fede che sta al cospetto dell’unico Signore deve apparirci, in questi tempi difficili, l’unica cosa veramente necessaria allo splendore della tradizione della fede. E se fosse proprio questo ciò che ci fa difetto? Da dove viene – e dove ci porta – questa assuefazione all’investitura fai-da-te, che impanca chiunque a salvatore del cristianesimo, e guida sicura delle sue guide insicure? Umiltà e obbedienza non sono virtù essenziali alla tradizione della fede? Se ce ne fossimo dimenticati, antichi o moderni quanti siamo, questo testo non ci istruisce soltanto. Ci dà una lezione di stile. Cattolico.
© Copyright Avvenire, 14 maggio 2011 consultabile online anche qui.
Tutto andra' bene ad una condizione, una sola, autentica, condizione: l'ubbidienza di vescovi e sacerdoti al Papa.
Se questo avverra' (davvero, non per finta!) le due forme dell'unico rito romano non solo potranno convivere ma anche aiutarsi vicendevolmente in un arricchimento reciproco che e' una vera ricchezza per tutta la Chiesa.
Se, pero', vescovi e preti continueranno (inutile negarlo: l'abbiamo visto e lo vediamo!) ad opporsi al Magistero di Benedetto XVI che e' volto anche e soprattutto all'Unita' fra i discepoli di Cristo i problemi, purtroppo, resteranno.
R.
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3 commenti:
Certo è che dipende anche da alcuni "in-fedeli".
E che vi sia qualche in-fedele non lo dico io ma lo prevede l'Istruzione stessa.
Cara Raffaella, non "vescovi e preti" ma ALCUNI fra i vescovi e preti!
Non facciamo generalizzazioni forcaiole e non dimentichiamoci dei finti tradizionalisti che sbavano per il rito antico ma sono continuamente in contraddizione con il Santo Padre e con il Magistero.
Anche se sono illustri professori del CNR...
Non dimentichiamoci neppure, caro anonimo, dei progressisti veri, pronti a perdonare quasi tutto a chiunque ma solleciti a rinfacciare, con sarcasmo,e a puntare il dito accusatore in un'unica direzione. Sempre quella.
Alla faccia della "misericordia dialogante" con la quale si riempiono la bocca continuamente...
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