Strappi e crisi di valori
Allarme di Papa e Colle
Benedetto XVI: "Si ritrovino i principi morali", mentre Napolitano insiste: "Scongiurare esasperazioni".
Nadia Pietrafitta
Preoccupati per la tenuta sociale dell'Italia, Oltretevere come sul colle più alto di Roma. Mentre il «caso» Ruby continua a farla da padrone sulla scena politica del Paese, Benedetto XVI e Giorgio Napolitano lanciano - da punti di osservazione diversi, ma avendo a cuore il bene del Paese - il loro allarme. Nessun riferimento specifico alla vicenda, ma toni decisi e messaggi inequivocabili. Il Papa riceve in udienza nell'aula delle Benedizioni funzionari e dirigenti della Questura di Roma e coglie l'occasione per denunciare quel «senso di insicurezza» dovuto «alla precarietà sociale ed economica» e acuito «da un certo indebolimento della percezione dei principi etici su cui si fonda il diritto e degli atteggiamenti morali personali, che a quegli ordinamenti sempre danno forza».
Ratzinger invita «società» e «istituzioni pubbliche» a ritrovare moralità, «per dare nuova consistenza ai valori etici e giuridici di riferimento e quindi all'azione pratica». Il suo è un vero e proprio invito a reagire. «Il nostro mondo, con tutte le sue nuove speranze e possibilità - spiega il Pontefice - è attraversato dall'impressione che il consenso morale venga meno. Si affaccia pertanto in molti la tentazione di pensare che le forze mobilitate per la difesa della società civile siano alla fine destinate all'insuccesso». Dall'allarme per la demotivazione della società civile, Benedetto XVI passa, però, all'appello ai cristiani: ritrovino «una nuova risolutezza nel professare la fede e nel compiere il bene», contro una «visione riduttiva della coscienza», secondo la quale non vi sono riferimenti oggettivi nel determinare ciò che vale e ciò che è vero, ma è il singolo individuo, con le sue intuizioni e le sue esperienze, ad essere il metro di misura. Ore «buie» sì, insomma, ma ricerca di una morala private e nessun accenno all'inchiesta che coinvolge Silvio Berlusconi. Il mondo della Chiesa, tuttavia, non risparmia il premier: la vicenda Ruby - annuncia insolitamente il presidente della Cei Angelo Bagnasco - sarà persino esaminata lunedì prossimo dal Consiglio permanente dei vescovi riunito ad Ancona.
Duro anche Famiglia Cristiana che esprime «angoscia» per gli effetti dello «scandalo» che da Arcore si abbatte sulle famiglie, con la «indecente rappresentazione del modo di vivere di tre generazioni, dei nonni, dei padri e dei figli». Il settimanale dei paolini attribuisce all'«evo berlusconiano» anche «la divisione politica nel mondo cattolico, che non era riuscita a nessuno prima del Cavaliere nella storia repubblicana» e provocatoriamente domanda: «Come voteranno i cattolici alle prossime elezioni?». Dal Quirinale, intanto, il presidente Napolitano continua a manifestare quel «turbamento» già espresso nei giorni scorsi. Senza citare il caso Ruby, ma con evidente riferimento ad esso e alle accuse lanciate dal Cav alla magistratura «politicizzata», il Capo dello Stato lancia un nuovo appello ad affrontare la vicenda in sede giudiziaria, avvalendosi delle regole del «giusto processo». Diversamente, spiega, «ci sono solo le tentazioni di conflitti istituzionali e di strappi mediatici che non possono condurre, per nessuno, a conclusioni di verità e di giustizia».
Napolitano approfitta del breve discorso alla Giornata dell'Informazione - che una volta l'anno vede riunito al Quirinale il mondo del giornalismo - per piazzare una nuova stoccata. Il Capo dello Stato sembra non aver apprezzato i videomessaggi di Berlusconi e le sue iniziative che tendono a rifiutare il giudizio e a far slittare il processo. Non è questa la strada, ripete, così non si fa il bene del Paese. Invece «occorre, nell'immediato, scongiurare ulteriori esasperazioni e tensioni che possono solo aggravare un turbamento largamente avvertito e riconosciuto e suscitare un effetto di deprimente lontananza dallo sforzo che si richiede per superare le molteplici prove cui la comunità nazionale deve fare fronte». Il Colle ammette che chi governa o ricopre alti incarichi pubblici possa avere particolari garanzie, ma non concepisce che possa sottrarsi al controllo di legalità affidato alla magistratura. «Un valido equilibrio - sentenzia - è sempre indispensabile nel rapporto tra chi è costituzionalmente deputato ad esercitare il controllo di legalità e ha specificamente l'obbligo di esercitare l'azione penale, e chi è chiamato, nel quadro istituzionale e secondo le regole della Costituzione, a svolgere funzioni di rappresentanza democratica e di governo».
© Copyright Il Tempo, 22 gennaio 2011 consultabile online anche qui.
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