CHIESA - LUCE DEL MONDO
Intelligenza di FEDE
Francesco Ventorino
Il Cristianesimo «dà gioia». È il filo conduttore della sua vita.
E di questo libro-intervista. In cui lo sguardo del Papa entra nella realtà. Pedofilia, martirio, sessualità, Eucaristia... Affronta tutto. Con un’unità di misura. Che «viene a dimorare in noi»
Quello che colpisce leggendo l’intervista che il Papa ha rilasciato al suo connazionale Peter Seewald è lo sguardo positivo con cui l’uomo Joseph Ratzinger si è abituato a guardare tutte le cose. Egli ne svela il segreto fin dalle prime battute: «Tutta la mia vita è sempre stata attraversata da un filo conduttore, questo: il Cristianesimo dà gioia, allarga gli orizzonti. In definitiva un’esistenza vissuta sempre e soltanto “contro” sarebbe insopportabile».
Questo sguardo che nasce, dunque, dall’intelligenza della fede scruta anche il fenomeno più complesso e più problematico, quello della modernità, e finisce per scorgere anche qui un aspetto da valorizzare, anzi una vera e propria moralità: «La modernità non consiste certo solo di negatività.
Se così fosse non potrebbe durare a lungo. Essa ha in sé grandi valori morali che vengono proprio dal Cristianesimo, che solo grazie al Cristianesimo, in quanto valori, sono entrati nella coscienza dell’umanità». Questi valori devono essere difesi anche dal Papa.
Un simile sguardo riesce a penetrare in quello che la Chiesa chiama mysterium iniquitatis, il mistero del male, che oggi si evidenzia drammaticamente nel tradimento di non pochi preti: «È un mistero quello per cui qualcuno che si è votato a ciò che è sacro lo perda totalmente e poi smarrisca anche le sue stesse origini». Eppure «al momento dell’ordinazione sacerdotale deve pure avere avuto una nostalgia per ciò che è grande, per ciò che è puro, altrimenti non avrebbe compiuto quella scelta. Come è possibile che uno così precipiti in questo modo?». Anche questa abissale e incomprensibile iniquità «si rivela proprio come una prova che è Lui che sostiene e che ha fondato la Chiesa». Riesce paradossale; ma persino dei falsi profeti hanno potuto avere, per certi versi, un effetto positivo, quello di confermarci nella certezza della presenza del Signore Risorto.
Bene e verità. È questa posizione di fronte alla realtà che porta Benedetto XVI a cogliere nella loro più intima verità la sessualità («attraverso di essa l’uomo partecipa all’opera creatrice di Dio»), i beni di questo mondo, il potere stesso. All’intervistatore che gli chiede quando il Papa spingerà la Chiesa a distaccarsi dai suoi beni, quando porrà di fronte al mondo un gesto eclatante di rinuncia, di povertà, Ratzinger risponde correggendo la domanda: «Bisogna chiedersi invece fin quando una determinata cosa serva all’insieme». Non ci si può privare, con leggerezza, dei beni se essi sono utili per servire.
Con questo cuore forte e magnanimo vengono affrontate le grandi sfide del presente, innanzitutto quella che viene dal progresso umano. Il progresso è conoscenza e la conoscenza è potere; ma c’è un terzo punto di vista essenziale, che si riferisce al bene. «Se si incrementa unicamente il proprio potere per mezzo della propria conoscenza, questo tipo di progresso diventa distruttivo». Vediamo il potere dell’uomo cresciuto in modo abnorme; «quello che non è cresciuto di pari passo è il suo potenziale etico». Ma cos’è bene?
La questione del potere è collegata, dunque, a quella della verità. Il concetto di verità suscita oggi sospetto, forse perché se ne è abusato: «In nome della verità si è giunti all’intolleranza e si sono commesse atrocità». E tuttavia, mettere la verità da parte perché ritenuta irraggiungibile potrebbe avere effetti devastanti. Se l’uomo non è capace di verità, non è neanche capace di moralità, perché non avrebbe unità di misura alcuna: l’opinione della maggioranza diverrebbe l’unico criterio che conta, se non che «la storia ha dimostrato a sufficienza quanto le maggioranze possano essere distruttive»). È questo che i cristiani devono avere il coraggio di dire: «Sì, l’uomo deve cercare la verità; egli è capace di verità». Essi sono chiamati ad impedire il diffondersi di una sorta di «tolleranza negativa», quella in forza della quale non devono esserci crocifissi negli edifici pubblici, il che è l’eliminazione della vera tolleranza, perché porterebbe alla conclusione che «la religione, che la fede cristiana non possono più esprimersi in modo visibile». Una tolleranza siffatta è nemica della libertà.
Tutto ciò ripropone la centralità della questione di Dio, anzi della priorità di Dio. Quando viene a mancare Dio, infatti, «tutto può essere razionale quanto si vuole, ma l’uomo perde la sua dignità e la sua specificità umana; e così crolla l’essenziale». Questo è uno dei segni dei tempi che deve rappresentare per noi cristiani una sfida urgente. «Dobbiamo vivere in modo da mostrare che l’infinito di cui l’uomo ha bisogno può venire soltanto da Dio; che Dio è la nostra prima necessità». Non si tratta, però, di un Dio che in qualche modo esiste, ma di un Dio che ci conosce, che ci parla, ci riguarda, un Dio che viene in Cristo.
Si tratta, dunque, di far comprendere con chiarezza che noi cristiani guardiamo a Cristo che viene. «Spesso questo Colui che viene è stato presentato con formule senz’altro vere che però sono insieme inerti: esse non riescono più a penetrare nel contesto della nostra vita e spesso ci risultano incomprensibili». Potremo riuscire a comunicarLo solo se vivremo il Cristianesimo come avvenimento nel presente. Solo allora potremo anche esprimerlo in modo nuovo: «La traduzione intellettuale presuppone la traduzione esistenziale».
Accanto a questo impegno a rendere più comprensibile la nostra fede si affianca quello di una paziente ricostruzione dell’unità del tessuto ecclesiale. Non si tratta di tattica o di politica, «ma di un avvicinamento che scaturisce dall’essere profondamente rivolti gli uni verso gli altri». E il mondo ha bisogno di una forte dose di testimonianza, motivata e fondata ragionevolmente «dell’unico Dio che ci parla in Cristo».
«Un povero mendicante». Il grande alimento della vita della Chiesa è la sua liturgia. La liturgia non può ridursi ad «autorappresentazione della comunità», deve invece essere riscoperta come «un processo attraverso il quale ci si lascia guidare nella grande fede e nella grande preghiera della Chiesa». Si tratta di «abbandonarci alla pienezza della fede, comprenderla, prenderne intimamente parte conferendo anche alla Celebrazione eucaristica quella forma decorosa per la quale diventa bella, diviene una gioia». Nell’Eucaristia Cristo è realmente presente: questo è l’avvenimento per eccellenza. «Se vogliamo che nel mondo qualcosa vada avanti, questo è possibile solo a partire dall’unità di misura, che viene a dimorare in noi, che entra in noi come realtà».
A quest’Uomo che è Dio, Benedetto XVI si rivolge come «un povero mendicante»; ancora più degli altri uomini mendicante, proprio perché consapevole del suo compito particolarissimo nella Chiesa, essere colui che alla fine, perché non rimanga «tutto sospeso», prende le «decisioni in ultimo vincolanti grazie alle quali diviene chiaro cosa è la fede della Chiesa, e cosa non è». In altre parole, essere la roccia, il punto di riferimento ultimo della fede dei cristiani, per cui «dove c’è Pietro, c’è la Chiesa». Ma il primato petrino è anzitutto quello del martirio, testimonianza suprema a Cristo. « Il fatto che i primi Papi siano stati tutti martiri, ha il suo significato».
© Copyright Tracce N.11, Dicembre 2010
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