sabato 22 gennaio 2011

"L'unità delle nazioni. Una visione dei Padri della Chiesa" di Joseph Ratzinger, un testo che aveva un carattere pionieristico all'epoca della sua composizione (O.R.)

Estratto della conferenza tenuta da Joseph Ratzinger nel 1962 alla settimana della Salzburger Hochschule: Senza verità la politica è culto dei demoni (Osservatore Romano)

La rivoluzione che ribaltò il concetto di potere

di Manlio Simonetti

Nell'introduzione a questo petit livre, il curatore Giovanni Maria Vian ne rileva il carattere pionieristico all'epoca della sua composizione, anni Sessanta del secolo scorso, quando le fortune della cosiddetta teologia politica erano ancora agli albori. In effetti, anche se la prima edizione del libro si ebbe nel 1973, esso rielaborava due precedenti studi, rimontanti agli anni 1961 e 1963.
L'argomento, l'unità delle nazioni, anche se spazia sulla riflessione pagana e cristiana in senso generale, è centrato su due autori, Origene e Agostino: e se la presenza di Agostino è più che scontata, dato che la sua fortuna non ha mai subìto eclissi dal suo al nostro tempo, va invece debitamente rilevata la centralità riservata, dal Ratzinger professore di fresca nomina all'università di Bonn, filosofo ma anche all'occorrenza filologo, a Origene, che con Agostino condivide il vanto di massimo rappresentante della riflessione cristiana in età antica, ma di cui fortuna e memoria erano state di fatto affossate a causa sia delle ripetute condanne, di cui quello fu fatto oggetto tra il III e il VI secolo, sia di certi aspetti del suo pensiero che si collocavano agli antipodi di quello di Lutero e di Calvino, per non dire di Agostino stesso.
Solo dopo la seconda guerra mondiale il significato centrale della riflessione di Origene in ambito patristico è stato rivalutato da studiosi francesi e poi anche italiani, mentre in Germania, nonostante l'avveniristica monografia di Völker, pubblicata nel 1931, persistevano antiche e forti remore, solo con lenta gradualità venute meno.
In questo contesto la presa di posizione di Ratzinger andava per certo contro corrente, come anche per l'importanza accordata alla riflessione gnostica, senza dubbio sopravvalutata sulla traccia dell'allora imperante pangnosticismo di Hans Jonas, ma che anticipava gli esiti della ricerca di Antonio Orbe circa la comprensione globale dell'antica riflessione teologica cristiana, senza steccati tra ortodossia ed eresia.
Inizialmente Ratzinger rileva, nell'ambito della riflessione filosofica greca, la posizione degli stoici che avevano scoperto "dietro la diversità delle strutture, l'unità della essenza "uomo", l'umanità una dell'uomo, che sussiste attraverso tutti i tempi e gli spazi" (p. 20). La concezione panteistica della filosofia stoica, più specificamente l'idea aristotelica della monarchia divina avevano trovato la loro realizzazione politica nell'impero romano.
Alla concezione panteistica, e perciò necessitante, della riflessione stoica Ratzinger contrappone la fede veterotestamentaria in un unico Dio "che si erge libero di fronte al mondo" (p. 26). Secondo tale fede l'unità iniziale degli uomini si è disgregata a causa del peccato, e il recupero dell'unità è proiettato in dimensione futura, verso il momento in cui tutti i popoli confluiranno a Gerusalemme, centro di una nuova umanità unita. La contrapposizione tra queste due concezioni viene inasprita in ambito cristiano dall'avvento di Cristo come nuovo Adamo, con cui, dopo quella adamitica, "ha avuto principio una seconda e definitiva umanità", quella dei cristiani, che superando, mediante la partecipazione alla morte e risurrezione di Cristo, la condizione umana di carattere naturale, "rivendicano il titolo di essere il secondo e definitivo genere umano, che già da ora va costruendosi in mezzo all'umanità antica" (p. 28).
La Chiesa cristiana era il nuovo mondo, che si contrapponeva, pur alieno da ogni forma di violenza, a quello romano, in quanto si preannunciava come il mondo definitivo e vero, al quale quello antico "un giorno avrebbe dovuto cedere" (p. 29).
A questo punto Ratzinger affronta alla rivoluzione cristiana quella gnostica, concepita come ben altrimenti radicale: "essa respinge il mondo nella sua interezza insieme col suo dio, che smaschera come cupo tiranno e carceriere, vede in dio e nelle religioni solo il sigillo e la chiusura definitiva di quella prigione che è il mondo" (p. 32). Queste pagine del libro di Ratzinger, ispirate alla interpretazione che dello gnosticismo aveva dato Jonas e che negli anni Sessanta del secolo scorso era dominante in Germania e negli Stati Uniti, vanno oggi ridimensionate insieme con quella interpretazione, in quanto l'affermato rifiuto del mondo materiale rimase negli gnostici sempre allo stadio di mera teoria, senza realizzarsi in una concezione di vera e propria teologia politica: gli gnostici furono quanto mai lealisti nei confronti dello stato romano e anche per questo, oltre che per più importanti motivi di ordine dottrinale, risultarono invisi ai fedeli della Chiesa cattolica.
In opposizione al nichilismo gnostico, la riflessione cattolica, pur non minimizzando affatto i guasti del peccato, ha sempre affermato la bontà del mondo in quanto opera dell'unico sommo Dio, e pur nella convinzione che in un tempo futuro l'impero di Roma, dai romani considerato eterno, avrebbe avuto termine e sarebbe stato sostituito dal regno di Cristo, nell'affermazione che ogni potere viene da Dio fondavano la separazione tra ciò che appartiene a Dio e ciò che appartiene a Cesare e non vedevano motivo di rifiutargli l'ossequio nei limiti in cui questo non contrastava col preminente diritto che Dio aveva sull'uomo.
Nella trama di questa riflessione s'inseriva la concezione dell'unità di tutti gli uomini in Cristo, in quanto la Chiesa è concepita già da Paolo come corpo di Lui, inteso come unico uomo nuovo (p. 37). Facendosi uomo in Cristo Dio ha tratto a sé l'uomo immettendolo nell'unità con Dio, in modo che "l'essere di Gesù Cristo e il suo messaggio hanno introdotto una nuova dinamica nell'umanità, la dinamica del trapasso dall'essere dilacerato dei molti singoli entro l'unità di Gesù Cristo, di Dio. La Chiesa è, per così dire, null'altro che questa dinamica, questo entrare in movimento da parte dell'umanità in direzione dell'unità di Dio" (p. 40).
Questo mistero di unità, che cultualmente ha il suo centro nella mensa eucaristica e che si alimenta alla più generale convinzione che tutti gli uomini in Cristo diventano fratelli tra loro, "si realizza nel singolo uomo come trapasso dalla sovranità del proprio io all'unità delle membra del corpo di Cristo" (p. 42). Fattualmente questa unità trova concreta attuazione nella rete di comunità, le singole Chiese che, pur materialmente autonome una rispetto all'altra, sono fraternamente in comunione tra loro e con Dio realizzando "l'ultimo fine dell'evento di Cristo" (ibidem).
La riflessione di Origene sul tema dell'unità dei cristiani prese consistenza soprattutto nella polemica col filofoso pagano Celso. Questi, rimproverando ai cristiani di aver abbandonato le leggi patrie, aveva prospettato una visione globale dell'unità dei vari popoli come entità diverse, sovrumanamente amministrate, sotto l'egida del sommo Dio, da divinità minori, quelle che i giudei definivano angeli delle nazioni, armonicamente conviventi nella superiore unità politica rappresentata dall'impero romano.
Origene accetta e fa sua la dottrina giudaica degli angeli delle nazioni, ma la fonda sulla sua notazione più caratteristica e importante: solo Israele, tra tutti i popoli della terra, non è stato affidato al governo di un angelo, ma è rimasto sotto il dominio diretto e la protezione di Dio (Deuteronomio, 32, 8-9): in questo senso il dominio degli angeli sui singoli popoli è valutato da Origene prevalentemente, non completamente, in modo negativo. Ne deriva che "l'opera salvifica di Cristo (...) consiste proprio nel fatto che egli ha vinto gli arconti (cioè, gli angeli delle nazioni) e ha condotto gli uomini fuori della prigionia del fattore nazionale nell'unità di Dio, entro l'unità dell'umanità una" (p. 54).
Abbiamo detto che la concezione origeniana degli angeli delle nazioni è prevalentemente, non completamente negativa. Infatti nei superstiti scritti di Origene non mancano spunti nei quali questi angeli vengono considerati come coloro che hanno trasmesso agli uomini la loro scienza, scienza del mondo, poesia grammatica retorica musica, e così via: scienza del mondo però, non sapienza di Dio che si è resa manifesta in Cristo (p. 60).
In effetti "Origene, di fronte a Celso, non nega che la fede cristiana di fatto implichi una breccia praticata attraverso l'antico principio del vincolo nazionale e politico cui era legato il fatto religioso. I cristiani hanno realmente abbandonato gli antichi legami (...) La loro guida è Cristo, che essi seguono come quel popolo nuovo presso il quale le spade sono tramutate in aratri e le lance in falci (...) i suoi uomini in Gesù sono diventati figli della pace (...) Al posto del dominio assoluto delle leggi nazionali, per il cristiano è subentrata la legge di Cristo, che ha proclamato nulle le leggi antiche (...) al posto dei limitati ordinamenti nazionali è entrata l'unica legge di Dio, che in virtù di Gesù Cristo vige per tutta l'ecumene" (pp. 63-64).
Date queste conclusioni, Origene risponde negativamente all'invito di Celso affinché i cristiani s'impegnino concretamente e attivamente a pro dell'impero: essi non possono impugnare le armi, non possono ricoprire uffici pubblici, ritengono giusto trasgredire le leggi dello stato per amore della legge di Cristo. O per meglio dire: i cristiani s'impegnano anche a pro dell'impero, ma dal superiore punto di vista del servizio reso a Dio, che si estende a beneficio del prossimo, che è dire di tutto il mondo (p. 70).
Il nuovo ordine vagheggiato da Origene era destinato a realizzarsi soltanto in proiezione escatologica, nell'ultimo tempo, in quanto la persistenza dell'impero pagano impediva ogni prospettiva presente o di prossimo futuro. Ma il radicale cambiamento impresso ai rapporti tra Chiesa e impero da Costantino imponeva un riesame radicale anche riguardo alla funzione dell'impero nel mondo attuale.
Proprio questo ripensamento operò Eusebio di Cesarea, teorizzando l'impero diventato cristiano come instaurazione del regno messianico a opera di Costantino, il nuovo Mosè. Perciò la sua quasi completa assenza non manca di avvertirsi nella pagina di Ratzinger, che passa direttamente da Origene ad Agostino, allorché la caduta di Roma a opera dei goti nel 410 mandò in frantumi, in Occidente, la simbiosi tra impero e Chiesa vagheggiata dal grande storico.
In polemica con l'aristocrazia pagana che interpretava la decadenza di Roma come punizione imposta dagli dei tradizionali ormai dismessi dall'imperatore, nella Città di Dio Agostino contesta decisamente verità e significato della religione politica imperniata sul culto degli dei tradizionali, che aveva messo gli uomini in balia dei demoni. In questa prospettiva "il sacrificio di Cristo e dei cristiani ora diviene veramente comprensibile come "redenzione", cioè liberazione: elimina il culto politico opposto alla verità e al posto di esso, che è culto dei demoni, mette l'unico universale servizio alla verità, che è libertà" (p. 84).
In ambito filosofico, in polemica sia con la divinizzazione del mondo affermata dal panteismo stoico sia con l'eccessivo divisismo, per altro accentuato dal nostro autore, predicato dal platonismo, Agostino propone la convinzione cristiana sia del mondo come creatura di Dio sia della funzione dell'incarnazione di Cristo come presenza di Dio nella storia degli uomini. Ne deriva che il bene e il male operati dai vari regni terreni, che si sono succeduti nella storia, sono stati voluti da Dio, sì che il dominio di buoni e cattivi è "il segno, duplice e unitario insieme, di Dio nella storia, che allude tanto al potere assoluto di Dio come alla relatività dei valori immanenti al mondo, e particolarmente della grandezza politica" (p. 93).
Di qui la bivalente, e al fondo negativa, valutazione della potenza romana, meritato frutto di prisca virtus e, insieme, di illimitata ambizione: i romani "avevano ricercato e ricevuto il regno della terra al posto del regno eterno, la fama terrena in luogo della gloria imperitura. L'impero romano, il segno della loro grandezza, fu contemporaneamente l'indizio della loro riprovazione perpetua" (p. 95).
Agostino ha riconosciuto il valore positivo dell'impero, sua patria, capace di buona amministrazione, mirata al benessere terreno dei sudditi, ma valore relativo a riscontro del valore assoluto della patria eterna di tutti gli uomini, la città celeste, concepita non soltanto come realtà escatologica, ma già ora come "popolo di Dio nel pellegrinaggio attraverso il deserto del regno terreno, la Chiesa", che in questo mondo vive come straniera in esilio perché il suo vero luogo è altrove (p. 104).
Nel suo vivere nel mondo la Chiesa deve necessariamente convivere con lo Stato: Agostino si è reso chiaramente conto della necessità, pur nella loro imperfezione, del permanere dei regni terreni. Mentre Origene, attivo in epoca in cui il cristianesimo era religio illicita, aveva guardato direttamente alla fine del mondo come realizzazione della città celeste, Agostino, meno rivoluzionario, vede già ora all'opera la Chiesa, ormai religione ufficiale dell'impero, che abbraccia nella sua estensione tutti i popoli e unifica nell'amore tutte le lingue che il peccato aveva diversificato; essa per altro, contro ogni facile tentazione di potere terreno, non deve avere "la minima comunanza con una teocrazia terrena, con un mondo costituito cristianamente, bensì è un'entità sacramentale - escatologica, che vive in questo mondo quale segno del mondo futuro" (p. 113).

(©L'Osservatore Romano - 23 gennaio 2011)

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