domenica 23 gennaio 2011

Un lettore scrive al direttore di Avvenire: Inginocchiarsi e saper vedere

Su segnalazione di Fabiola leggiamo:

Inginocchiarsi e saper vedere
Il direttore risponde


di Marco Tarquinio

Caro direttore, l’altro giorno sono andato a confessarmi. Era sera, la gente tornava dal lavoro e i negozi stavano chiudendo.
Entro in chiesa e suono il campanello per chiamare il confessore. Dopo poco dei passi lenti e stanchi rompono appena l’assoluto silenzio della chiesa, e un frate anziano spunta dal buio, illuminato dall’unico faro acceso sull’altare, quello del Tabernacolo. A un certo punto i passi si fermano e, come un cavaliere antico, quell’anziano frate si inginocchia, a fatica, lentamente, davanti al Santissimo Sacramento prima di venire a donare il perdono di Dio a un povero prete. In quel gesto, semplice ma rivoluzionario, credo che riposi tutta la certezza della nostra speranza. Chissà quante volte e con quanta distrazione compio anch’io quel gesto, quando entro in chiesa, mentre celebro la Messa… ma soltanto guardandolo fare così ho intuito tutta la potenza di quelle ginocchia piegate. Piegate per riconoscere una Presenza, piegate per implorare uno sguardo, piegate per invocare una grazia, piegate per chiedere perdono.
La miseria umana spiattellata sui giornali in questi giorni, il moralismo di chi si sente più giusto degli altri e condanna facendo il guardone, la gabbia di certa burocrazia che opprime… non potranno mai ingannarci, perché sappiamo che vengono sempre dal medesimo Regista, dal Nemico. Io preferisco pensare alla mia povertà, con la quale devo fare i conti tutti i giorni, certo però dell’abbraccio di Uno davanti al quale posso inginocchiarmi, come quel frate, nel buio, quella sera, lentamente, con gli occhi fissi su di Lui.

don Simone Riva, Arconate e Dairago (Mi)

Mi ha fatto bene la sua lettera, caro don Simone. E credo che leggerla e, magari, meditarla possa far bene a molti.
Soprattutto in questi giorni. Mi guardo dentro e continuo a interrogarmi su come mantenermi sereno e lucido, su come parlar chiaro senza perdere equilibrio e carità. Mi guardo intorno e vedo che coloro che hanno potere – potere politico, potere mediatico, potere di giudicare – s’impettiscono in prove di forza dure e pericolose per quel bene di tutti che sono le nostre democratiche istituzioni. Guardo sul mio tavolo e scorro tante lettere di cittadini e di cristiani come lei e come me, e magari migliori di me, che mi lasciano senza fiato per le contrapposte e persino violente certezze che esprimono...
Guardo sugli altri giornali e constato, per la verità senza grande stupore, che tutto d’un tratto s’è acceso un coro che intima alla Chiesa una possente ingerenza nei fatti della politica italiana, e che a dirigere questo coro c’è anche chi s’è spesso sdegnato e addirittura ha evocato insensatamente mediocri mercanteggiamenti quando uomini di Chiesa o anche solo questo giornale, che tiene cara e alta la sua ispirazione cattolica, hanno ricordato valori intangibili e richiamato doveri inaggirabili di quanti hanno ruolo pubblico, segnalato rischi incombenti e indicato obiettivi essenziali, partecipando con giusta libertà e civile passione al dibattito pubblico su vicende e scelte destinate a incidere sul futuro della nostra comunità nazionale. E così ho preso a rileggere le parole pensose e attente che, anche solo negli ultimi anni, sono state dette dai vescovi, guide delle nostre comunità di fede e cittadini rispettosi e responsabili di questo Paese. Ho ripreso in mano e le riflessioni e i richiami profondi e densi del Papa, padre e maestro di noi tutti.
E ho ritrovato la traccia ben incisa di quella che il cardinale Bagnasco chiama la grande «amicizia» della Chiesa per l’Italia. C’è in essa una saggezza, che non si può mai ridurre a slogan di fazione eppure aiuta a riconoscere ciò che è bene e ciò che è male.
Un disinteressato interesse, che non si affievolisce. Un consiglio generoso, che dà ragioni, e merita ascolto. Un sereno appello alla moralità e mai un esacerbato moralismo di circostanza. Una preoccupazione crescente che non ha consentito e non consente distrazioni, e purtroppo con motivo. C’è la voce di una Chiesa che vive tra la gente e parla con la gente e della gente. Ed è la stessa Chiesa che, con la sua lettera, lei ci fa “vedere” e capire, caro don Simone. È una Chiesa che sa piegarsi sull’Italia e sa inginocchiarsi anche per questo nostro Paese, che insegna a tenere desto e limpido lo sguardo, fermo su ciò che davvero vale. Questo conta, soprattutto quando l’orizzonte è offuscato e, come oggi, inquietudini, indignazioni e sconcerto sono grandi.

© Copyright Avvenire, 23 gennaio 2011

4 commenti:

Enzo ha detto...

Anche una lettera di genuina pietà e di amore per Cristo viene usata da Tarquini per dare un colpo al cavaliere: ce totale mancanza di scrupoli!

Enzo ha detto...

Anche una lettera di genuina pietà e di amore per Cristo viene usata da Tarquini per dare un colpo al cavaliere: ce totale mancanza di scrupoli!

Anonimo ha detto...

Il raffronto tra il frate che si inginocchia davanti al Santissimo e quella della Chiesa che si piega sull'Italia c'entra come i cavoli a merenda. La realtà, semplice, è che in quel gesto c'è condensata tutta la tradizione di civiltà e rispetto che abbiamo buttato alle ortiche, spesso incoraggiati dalla Chiesa stessa. Da bambino mi avevano insegnato a segnarmi anche semplicemente passando davanti ad una chiesa o ad una madonnina. Ora, invece, quante "catechiste" sanno rinunciare al cenno della testa col quale passano davanti al tabernacolo, dopo aver agguantato l'ostia, per umiliarsi in un benefico inginocchiamento? questo è il problema.

Fabiola ha detto...

A me non pare sia così. Mi sembra anzi un'intervento equilibrato e prudente, quello di Tarquinio, che non tralascia di segnalare la generale piaggeria da sepolcri imbiancati nei confronti della Chiesa dei laicisti nostrani e il "guardonismo" compulsivo di PM, giornali e opposizioni, così come il moralismo di comodo dei sostenitori del "vietato vietare". Che si accenni anche alle "esuberanze" berlusconiane mi sembra doveroso.