mercoledì 5 ottobre 2011

Fede e testimonianza. Gelo e pochi applausi quando il profeta è autentico (Inos Biffi)

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Fede e testimonianza

Gelo e pochi applausi quando il profeta è autentico

di Inos Biffi

A un cristiano importa la fede, ossia l'accoglienza della Parola di Dio, che lo rende partecipe del disegno divino. Ora, se si è credenti, si è profeti, dal momento che, a ben vedere, la profezia significa annunzio non tanto del futuro, quanto dell'eterno, o anche del «presente» inteso come l'eterno nel tempo.
Del resto, ogni presagio si è avverato e risolto in Gesù Cristo, «il Profeta» (cfr. Giovanni, 1, 21), per cui la profezia cristiana coincide esattamente con la testimonianza cristiana.
Non raramente oggi si sente auspicare e pregare perché la Chiesa sia credibile e sia profetica: sono aggiunte superflue e quasi devianti. Per sua natura la Chiesa è credibile; altrimenti non sarebbe la Chiesa. Più che di essere credibili, ci si deve preoccupare di essere credenti: nella fede e nelle opere luminose che l'accompagnano (cfr. Matteo, 5, 16) risiedono i motivi della credibilità e sono offerti i segni della profezia, cioè della viva e operosa presenza del Vangelo.
Allo stesso modo è oggi facile sentire rievocare ed esaltare come «profeti» sacerdoti, religiosi o laici, che con i loro gesti e le loro parole avrebbero in particolare anticipato il Vaticano II.
Forse anche al riguardo una certa cautela non guasterebbe, specialmente quando si constata che quelle «profezie», proferite con categorica sicurezza, erano spesso intrise di risentimento, e talora di acredine, nei confronti del magistero e della pastorale della Chiesa «ufficiale» o «giuridica», come veniva chiamata, e come tale giudicata alquanto retriva, attardata in vecchi compromessi, incapace di leggere i «segni dei tempi», e quindi restia a radicali riforme.
Si accredita in tal modo l'idea che, per essere profeti, bisogna oltrepassare la dottrina e la prassi della Chiesa istituzionale e gerarchica; bisogna cioè scegliere una Chiesa «spirituale» e dinamica e intraprendere una via nuova, con un ascolto più fedele del mondo e una più coraggiosa alleanza tra fede e cultura.
Potremmo osservare che per lo più quei profeti tanto esaltati appartenevano alla casta selezionata dei cristiani coltivati, convinti di parlare a nome del Popolo di Dio, il quale restava piuttosto indifferente e proseguiva nella convinzione che Gesù Cristo non li aveva posti a fare da guida nella Chiesa.
Si asserisce solitamente a loro riguardo che anticipavano coraggiosamente il Vaticano II. È indubbio che in alcuni credenti -- pastori, teologi, laici cristiani -- non siano mancate fondate e felici intuizioni e auspici di rinnovamento e di riforma, recepiti e attuati poi dal concilio, che li ha inseriti nell'ortodossia della Tradizione: questa, infatti, rappresenta la sostanza dello stesso concilio, come appare chiaramente a chi, senza pregiudizi postconciliari, abbia l'onesta pazienza di esaminarne i documenti.
Tutt'altro è invece il valore delle «voci profetiche».
Se, invece di lasciarsi andare, con vezzo monotono e scontato, a elogi sonori di tali voci, le si prendesse in esame rigoroso, richiamando le circostanze concrete in cui esse risonavano, ci si accorgerebbe di quanto il loro insegnamento, alternativo e parallelo a quello dei maestri della fede, fosse fuorviante, e si comprenderebbe perché questi nutrissero riserve o fossero diffidenti e prendessero provvedimenti.
Senza dire che qualche sospetto era in ogni caso lecito di fronte all'autoattribuzione del carisma della profezia. Oggi poi si può meglio misurare quanto alcuni interventi, che parevano folgorazioni dello Spirito Santo e intelligenti aperture alla cultura, fossero in realtà improponibili dal profilo della fede e deleteri, e che, al contrario, la preveggenza fosse proprio quella dei cattolici «antiquati».
Si potrebbe poi osservare l'incoerenza di quanti, proponendosi come «profeti», si lamentavano di essere perseguitati: ma i veri profeti nella storia sacra non furono mai applauditi, si pensi a Geremia.
Ma a questo punto sorge la domanda: quali sono le «profezie» e i «profeti» di cui ha bisogno la Chiesa in ogni tempo? Se, come all'inizio abbiamo affermato, l'autenticità e l'intensità della profezia cristiana è misurata dall'autenticità e dall'intensità della fede e quindi della santità, ci appare, per esempio, una grande e decisiva profezia il concilio di Trento, con i suoi decreti dottrinali e pastorali, le sue disposizioni de reformatione, di fronte allo sfacelo di una riforma che, sfaldando la Tradizione, frantumava la Scrittura, eliminava quasi tutti i sacramenti e primariamente l'Eucaristia, e dissolveva il ministero ordinato e la gerarchia.
Allora, come profeti veri, sempre per fermarci al tempo della Riforma cattolica, risaltano san Carlo Borromeo, promotore non solo del ripristino evangelico stabilito e incentivato dal Tridentino, ma anche di una rinnovata cultura, che venne improntando la società così profondamente, che ancora oggi, dov'è giunta la sua opera, se ne risentono i benefici frutti. E insieme con san Carlo si possono richiamare altri eccellenti pastori, o grandi fondatori di ordini o di congregazioni religiose, come sant'Antonio Maria Zaccaria, che preparò quella riforma, o sant'Ignazio di Loyola, e in seguito san Filippo Neri, o san Camillo de Lellis, o san Vincenzo de Paul.
E più vicino a noi, se vogliamo fermarci ai santi dell'«accoglienza» -- ma allora «spudoratamente» si parlava di «carità cristiana», per amore di Dio -- ecco il Cottolengo, o don Bosco, o don Guanella, o don Orione, per ricordarne alcuni, che non temevano di tenere un linguaggio schiettamente cristiano, consono alla loro professione religiosa, che appariva in tutto.
Con la loro «profezia», poco teorica e molto pratica, furono autori delle più radicali «rivoluzioni». Anch'essi non ebbero sempre e subito una vita facile e applaudita nella Chiesa, e pure non ritennero mai, come scrive il cardinale Giacomo Biffi, «un atto particolarmente meritorio» il «dir male della Chiesa»; in ogni caso, le impronte della loro profezia hanno inciso profondamente sia nella stessa Chiesa, sia nella cultura, che concorsero a rendere cristiana. Il cristiano mira non tanto a dialogare, in vicendevole ammirazione, con la cultura del mondo, quanto a creare in forza del Vangelo una cultura nuova, nella persuasione che la promozione umana non si aggiunge alla evangelizzazione, ma ne è il frutto.
Ai discepoli del Signore non importa una profezia come anticipo della cronologia o previsione del futuro; non si affannano a leggere i «segni dei tempi», possedendo già la lettura che ne ha fatto, una volta per tutte, Gesù Cristo, morto e risuscitato. Né si danno troppo da fare per la convocazione di nuovi concili che rispondano alle loro attese, insoddisfatte dai concili precedenti.
Essi si preoccupano piuttosto di una profezia consistente in una ortodossia sempre più tradizionale e quindi integra e limpida; gioiscono e sono presi d'ammirazione per il carisma del Magistero, che in virtù dell'assistenza dello Spirito Santo assicura la fedeltà alla Parola di Dio; rendono evidente la comunione con Cristo nelle opere della fraternità; predicano che il destino dell'uomo è la vita eterna.
E sanno che, siccome già ora c'è Gesù Cristo, c'è già ora anche la vera Chiesa, pur non essendo ancora tutta nella condizione gloriosa.
Tutti gli appartenenti al Popolo di Dio sono chiamati a essere profeti, proprio perché chiamati a essere credenti. La profezia è la fede.

(©L'Osservatore Romano 5 ottobre 2011)

1 commento:

DANTE PASTORELLI ha detto...

Anche Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II han ricevuto applausi a non finire, specie il secondo nelle sue adunate oceaniche: dal ragionamento di Biffi se ne deve ricavar che di profetico non avevan proprio niente.