UNA SENTENZA, TROPPI CLAMORI
USCITA MALDESTRA
GIUSEPPE ANZANI
Tutto questo chiasso sulla sentenza della Cassazione in merito all’adozione di una bambina russa da parte di una donna italiana single, io non lo capisco. O forse mi sembra di capire anche troppo bene il retropensiero di chi ha sparato la notizia in modo capovolto, travisandola, come se la Corte di Cassazione avesse inaugurato una nuova e rivoluzionaria stagione giurisprudenziale ammettendo per la prima volta i single ad adottare bambini.
La Cassazione, sul punto preciso, ha detto il contrario. Ha detto che l’adozione dei minori, italiani o stranieri, non può esser riconosciuta alle persone singole. E infatti non ha accolto, ma rigettato l’istanza. È rimasto ammesso, esattamente com’era prima, un rapporto di natura diversa, che in gergo i giuristi chiamano «adozione mite» e che assomiglia a un affidamento durevole, ma senza lo status di figlio legittimo. L’analisi delle norme del nostro ordinamento è stata precisa e puntuale, e oltretutto nel solco di precedenti decisioni, una delle quali (che risale a più di cinque anni fa) è perfettamente identica nella motivazione e nel dispositivo: l’adozione è possibile da parte di coniugi uniti in matrimonio, e non da parte di single.
Nulla di nuovo sotto il sole.
Ma allora, come è nato il clamore? Chi l’ha montato, e perché? È che l’ultima frase della sentenza, proprio nella coda, dice che la Convenzione di Strasburgo del 1967 lascia al legislatore nazionale la facoltà di ampliare l’adozione legittimante, se volesse ammettervi i singoli. Qualcuno ha visto in questa coda la scintilla per accendere il falò di una rivoluzione, l’auspicio, l’invito, il monito al Parlamento, l’apertura e l’esigenza e chissà che altro. Ieri sera la Cassazione ha emesso un comunicato per dire che il senso non era quello, niente sollecitazioni né pretese. Inusuale procedura di pompiere su un incendio da altri inventato?
Per la logica giuridica, è del tutto vero che la Convenzione di Strasburgo non obbliga e non vieta e lascia liberi i legislatori nazionali, e la frase in sé non fa una grinza, così. Solo che appiccicata lì, a decisione presa, a discorso finito, come una zeppa, può sembrare davvero una specie di ammiccamento, da far sbiadire poi con la logica del signor Veneranda. Ben diversamente la Cassazione del 2006, citata oggi da questa come la fonte del pensiero finale, aveva difeso proprio la libertà di divieto, perché «l’ammissibilità in via di principio del single all’adozione legittimante, oltre ad accendere non infondati dubbi di legittimità costituzionale, vanificherebbe quanto previsto dall’attuale normativa» e così «snaturando profondamente l’istituto ». La frase di oggi è monca. Non è sbagliata, ma è monca, e dunque è ancora più sbagliata perché inganna.
Il legislatore 'potrebbe', lo sapevamo già da prima, senza che Strasburgo s’immischi. Ma non lo farà, perché non violerà la propria Costituzione. Né tradirà l’obbedienza ai Trattati che impongono in tutte le scelte il best interest del bambino, rispetto al quale non è paragonabile il desiderio di un singolo alla infinita offerta di accoglienza di madri e padri adottivi in lista d’attesa. Da noi, la stessa legge d’impianto sull’adozione ha per titolo 'Diritto del minore a una famiglia'. Non dice «all’assistenza», dice alla famiglia. E famiglia è quella definita nell’articolo 29 della Costituzione. La Cassazione lo sa, e ha deciso in modo conforme, ed è quel che conta. Poteva risparmiarsi quell’uscita maldestra, tutto qui.
© Copyright Avvenire, 16 febbraio 2011
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